Nel fluire della vita lungo il pentagramma, una battuta dopo l’altra grovigli neri di note si dispongono secondo regole a volte oscure: famiglie fluttuanti tra molte altre, contese tra la solitudine di un ritmo ripetuto e la compagnia di un grande gruppo di archi, si arrampicano su scale non sempre armoniche. Famiglie che si smembrano, che si allargano, che tornano atomi e senza regole si riassemblano in altre forme, in parentesi della durata di un soffio.
E’ proprio il senso di perenne incompiutezza e di rassegnato mistero ad accompagnare la narrazione musicale di Olafur Arnalds, promettente compositore neo-classico di origini islandesi, sempre in bilico tra delicatezza mistica e fervore epico, come la sua terra di ghiacci e di fuochi. Dopo il commovente esordio di “Eulogy for Evolution” tenuto a battesimo come spalla dei Sigur Ros e poi ancora con la disarmante conferma di “..And they escaped the Weight of Darkness”, è evidente il suo distacco dalla scena tradizionale della musica colta contemporanea: echi minimalistici vengono rielaborati in modo unico e personale attraverso innesti post rock ed elettronici arricchiti da campionature ambientali, fino ad assumere dei tratti di assolutezza sonora, difficilmente ascrivibile a categorie e confini. Questo percorso di continuo arricchimento subisce però una battuta d’arresto nei suoi ultimi lavori ““ i cosiddetti veloci ““ prima con “Living Room Songs” (un esperimento di composizione in presa diretta in sette giorni, però ancora abbastanza articolato) e soprattutto con questo “Another Happy Day”, colonna sonora dell’omonima pellicola indipendente presentata al Sundance 2011, composta in sole due settimane.
Facilmente cinematografica per la sua maestosa universalità anche laddove l’espressione è flebile e timida, la musica di Arnalds ben si presta ad accompagnare i più disparati racconti umani: l’esordiente regista Sam Levinson ha fortemente voluto il compositore islandese per accompagnare la sua commedia amara sulle relazioni in una famiglia allargata e problematica. Tuttavia, gli immensi climax melodici traboccanti di archi, percussioni e basi elettroniche vengono nettamente riconsiderati e svuotati, per lasciare spazio ad uno scheletro sonoro certamente delicato ed intimo, ma che lascia delusi gli ammiratori. La parte elettronica viene quasi del tutto sacrificata in favore di un più austero incontro piano-violino, dove agli archi viene lasciata poca della drammaticità dei lavori precedenti. Il risultato è certo un ritratto dimesso e doloroso, profondamente intimo e delicato, ma sicuramente meno originale: la personale combinazione di suoni che si compongono uno sull’altro come un meccano sì, ma di plexiglas, lascia invece apparire un fraseggio più tradizionalmente minimalista (che già trova in Sakamoto un rapido paragone) e che a lungo andare annoia.
Se l’introduttiva “The Land of Nod” fa sperare in una continuità con i lavori precedenti grazie ai cromatismi drammatici di violino e pianoforte che si rincorrono verso un distorto apice conclusivo, le successive “Through the Screen” e “Before the Calm” lasciano un fraseggio scarno e sicuramente debole, anche se in verità mai banale. Maggiore intensità viene impressa nei brani dedicati alla descrizione dei personaggi, rispettivamente madre (“Lynn’s Theme”) e figlia (“Alice enters”): l’una più profondamente malinconica e ricca di slanci, l’altra più riflessiva e a tratti desolata, entrambe dualistiche nell’intreccio di archi e pianoforte. I pezzi centrali presentano una lettura naturalistica della narrazione, rendendo la musica parlante attraverso piccole sperimentazioni sonore: The Wait vede l’introduzione di numerosi momenti di silenzio e di levare che ben rendono l’asfissia di un’attesa, mentre A family stroll reintroduce dei disturbi rumoristici sul finale a suggerire una conclusione non lieta alla passeggiata di famiglia. Qualcosa del genio di Arnalds riaffiora nella sublime “Poland”, eterea composizione pianistica, solo punteggiata da violini leggeri che ne amplificano l’intimismo (come nel più famoso esempio di “Ljósià°”) e nella cavalcata finale di Out to the Sea, primo vero ingresso in scena di percussioni che si lasciano però solo assaporare. E’ solo dopo la tormentata “Autumn Leaves”, ripresa del tema di “Lynn”, che si rimane, ormai in chiusura, folgorati dalla vera composizione portante dell’album, “Everything Must Change”, pezzo atteso per tutto il racconto narrativo: finalmente assorbiti dalla mutevolezza ed imprevedibilità dei ritmi e dei fraseggi, si percorre un viaggio mistico lungo gli alti e bassi di una storia profondamente umana; il solito rincorrersi di violino e pianoforte viene inframmezzato da un inatteso interludio ricco di distorsioni elettroniche e percussioni (che fa persino riecheggiare un certo Trentemöller), coinvolgente e denso di domande.
Forse, è allora ““ quando la musica non rimane più sola ad interpretare le contraddittorie vicende degli animi umani, ma è di solo accompagnamento ad un racconto per immagini ““ che perde in Arnalds la sua vera forza. Rimasta nuda dei suoi slanci, diviene delicata e timida cronista degli eventi, inadatta ad amplificare la potenza narrativa e anzi quasi infastidita dalle prepotenze sentimentali. Non resta quindi che auspicarci un ritorno a quell’espressione naturale, senza freni e ritmi imposti, che era invece in grado con commovente spontaneità di trasformare il silenzio in racconti e scie di fumo colorato.
Photo: Estonian Foreign Ministry / CC BY