Il nuovo album dei Virginiana Miller è realtà . Lo diciamo con enfasi e rispetto, il rispetto che merita una delle formazioni italiane che più stimiamo. Da sempre.
Il fatto che sia in inglese non ci disturba affatto, anzi, proprio perchè Simone Lenzi declama le sue parole non nella nostra lingua madre, dà ancora più credibilità e forza a un disco che, parlando dell’America, abbraccia anche calde sonorità blues, country e folk, cavalcando oscure forze tenebrose ma anche brezze più leggere e melodicamente ispirate. L’America, con le sue contraddizioni, le sue debolezze ma sopratutto le sue storie (non certo di persone memorabili o storiche, ma proprio di gente comune, di gente ai margini, forse quelli che potremmo definire i perenni sconfitti), quasi da film, da serie TV e Simone, da questi spunti, ricava magie assolute che, come ritratti, inserisce nei suoi testi. Che poi l’America serva anche come chiave di lettura per la realtà più immediata che ci circonda, beh, è quasi scontato.
Un disco che potrebbe spiazzare chi della band ha sempre avuto una certa immagine, certo, però, nello stesso tempo anche un lavoro che conquista e cattura, ascolto dopo ascolto: vivo, stordente, affascinante e coinvolgente. Anche chi vi si accosta con diffidenza ne resterà ammaliato.
Un ritorno entusiasmante quello dei (nuovi, ma lo diciamo sottovoce) Virginiana Miller, che meritava una chiacchierata…
Ciao ragazzi, come state? Da dove mi scrivete?
Ti scriviamo da una Albuquerque immaginaria e stiamo tutti bene. Lo stesso speriamo di te, ovunque tu sia.
Inizierei con una “frivolezza”. Mi ricordo quando, agli esordi, vi accostavano spessissimo agli Smiths, paladini dell’ “inglesità “, e ora fate un disco che parla dell’America. Pare quasi una stranezza. Pare”…
Da giovani avevamo voglia di riuscire a cantare in italiano la musica che veniva da quelle parti. Fu una discreta faticaccia, ma ci piacque molto provarci.
Ora facciamo rock in american english, che per noi equivale a dire messa in latino: non c’è niente di strano, in fondo.
Ammetto che, quando ho visto ancora Ale Bavo (persona che stimo tantissimo) come produttore, ho pensato a un disco che potesse avere al suo interno più elettronica, mi sbagliavo. Il suono è caldissimo, toccante, concreto, tanto fisico quanto blues e desertico, crepuscolare. Quanto hanno contato le mani di Ale?
Quando registravamo con Ale ci siamo sentiti l’ultimo di Jovanotti. Notavamo insieme come fosse un disco di suoni più “veri”, più diretti. Chitarre, basso, batteria. Tutto in faccia e senza quella compressione igienico-sterilizzata di tanti dischi italiani degli ultimi anni.
Forse la sbronza dei dischi coi suoni di plastica è finalmente passata.
Che bella la copertina, chi si è occupato di curarla?
Il nostro Valerio Griselli si è occupato della copertina, il disegno è de La Tram, una portentosa disegnatrice livornese.
Avere uno sguardo da narratori e indagatori sull’America (immaginata dall’Italia), soffermarsi sulle sue contraddizioni, sui suoi paesaggi e i suoi passaggi a vuoto, quanto ti/ci può essere utile per avere uno sguardo critico sull’Italia stessa?
Abbiamo immaginato l’America senza muoverci da Livorno, come Salgari immaginava la Malesia senza muoversi da Torino. Per assurdo, pensiamo che alla fine questo esercizio di costruzione immaginaria dica qualcosa di vero sull’originale.
L’America sta attraversando una fase di crisi profonda, è sotto gli occhi di tutti. E ci sembrava più interessante parlare di questo che di Salvini o Di Maio. Io non ho voglia di sprecare una sola parola per Salvini o Di Maio.
Un cowboy, un pendolare, un wrestler, il secondo emendamento, un asteroide, il drugstore, la bandiera americana che sventola, Dio che ci guarda, il rifugio antiatomico, Albuquerque…ingredienti che si trovano nel disco ma che, lasciamelo dire, starebbero magnificamente anche in una serie TV tipo Breaking Bad o Sons Of Anarchy. Che ne dite? Non sarebbe così sorprendente trovare un vostro brano in una serie TV o sbaglio?
Se dovesse mai succedere giuro che ti invitiamo a cena. Scegli tu il ristorante migliore.
Adoro “Toast The Asteroid”, melodia magnifica, una canzone che mi da la pelle d’oca e sopratutto il modo di cantare di Simone, con quell’enfasi e quella cadenza, riesce a infondere alla perfezione l’idea di un brindisi. Com’è nato questo brano?
Simone ringrazia, intanto. C’era questo giro di piano che aveva portato Giulio. A Simone venivano in mente cose disparate, che non c’entrano niente l’una con l’altra, ma che alla fine sono finite lì tutte insieme. Intanto un po’ di musica: Frank Sinatra, Nick Cave, David Bowie“…e poi una poesia del puritanesimo americano delle origini, tratta da ‘The New England Primer’, che dice così: in Adam’s fall, we sinned it all.
Grazie ancora ragazzi. Una domanda sull’inglese ve la faccio, in conclusione. Non tanto sul perchè, quanto invece mi piaceva sentire un po’ le reazioni principali che avete avuto quando l’idea di non cantare più in italiano ha preso piede…
Abbiamo visto un po’ di disappunto sui social all’annuncio, almeno da parte di alcuni. Lo comprendiamo. Davvero però pensiamo di aver cantato quello che avevamo da cantare in italiano. E poi tutti hanno sempre sottolineato l’importanza dei testi delle nostre canzoni, ma spesso era come se i testi non fossero appunto quello che sono: testi di canzoni, e quindi, in un certo senso, parte essi stessi della musica. Bene, la stessa cura è stata messa nei testi in lingua inglese. Che almeno però rimarranno un po’ in ombra, come è nel desiderio di Simone che sia.
Diciamo infine che abbiamo bisogno di prenderci una lunga vacanza dall’italia sovranista. L’Italia sovranista ci fa abbastanza orrore.