Fine Febbraio, fuori dal teatro Ariston di Sanremo. Fabio De Min, vocalist dei Non Voglio Che Clara, regge un ombrello per ripararsi dalla pioggia mentre, distante dalla folla che si accalca all’uscita, guarda in direzione degli artisti, con un pizzico d’invidia ed amarezza; con “La Bella Estate” di Pavese sotto il braccio; e con lo spirito di chi ha riposto tutte le sue speranze in un pugno di canzoni e di poesie. Potrebbe essere una copertina di Luigi Tenco; l’istantanea di una vita che aspetta la propria occasione, per troppo tempo seduta ai tavoli anonimi di un Caffè o nelle fredde stanze di un Hotel.
Occasione che arriva pochi giorni dopo, con la pubblicazione del loro self-titled. Una manciata di canzoni, dieci in tutto; dieci ferite che aspettano di rimarginarsi; dieci punti di vista da cui guardare la vita senza illusioni e cercare di gustarne la bellezza; dieci storie “inevitabili”: si va dalle confessioni di “Porno”, che rimandano all’ultimo Niccolò Fabi; al Gino Paoli più ispirato di “Questo Lasciatelo Dire” e “L’oriundo”; a Syria che canta in “Sottile”; fino alle orchestrazioni pop di Bacharach (“L’avaro”) e al cantautorato di De Andrè (“In un giorno come questo”).
Le canzoni di quest’album potrebbero scivolare via, proprio come le gocce di pioggia sull’impermeabile di Fabio, fuori dal teatro di Sanremo; o potrebbero rimanere, come le ferite che ci portiamo dietro; le piccole morti di cui ogni giorno moriamo. Forse una volta smesso di piovere e chiuso l’ombrello, preferiremo ascoltare un disco più solare, più ottimista; e chiederemo aiuto ai Beach Boys. O forse “chissà “, seguiremo il percorso, iniziato circa due anni fa, che da Belluno porta alla canzone d’autore; e, anche quando il sole ritornerà a splendere, continueremo a crogiolarci in questa malinconica esaltazione della vita; aspettando qualcosa, qualcuno, che ci farà pensare ad altro; qualcuno per andare altrove…altrove.