Da Montepulciano a Milano ci vogliono più o meno quattro ore: si imbocca l’autostrada dal casello Valdichiana e si continua dritto fermandosi, ogni tanto, a rubare negli autogrill, per sentirsi Alain Delon. Ma dai borghi della provincia senese ai palcoscenici della musica nazionale, il viaggio sembra essere molto più lungo e complicato. I Baustelle l’hanno percorso in tre tappe, in una sorta di viatico da predestinati, che li ha visti passare dalle feste di fine anno del Liceo A. Da Sangallo e dalla Festa della Birra di Acquaviva di Montepulciano, ai palchi dei vari Rolling Stone, Vox Club, ecc. in un estenuante quanto gratificante (e remunerativo) tour in giro per lo stivale.
La band si presenta pressochè puntuale davanti alla folla che si è radunata intorno al palco concerti di Effetto Venezia, manifestazione annuale dell’omonimo quartiere labronico. Francesco Bianconi sembra Neil Hannon dei Divine Comedy, con un vestito leggero grigio e una camicia scura. Rachele Bastreghi è più casual, con un top e i jeans che avrebbe indossato un sabato sera qualunque, per andare al vecchio Blues pub di Chianciano. Insieme agli altri membri della band (Claudio Brasini, Claudio Chiari), anche Ettore, il fratello del cantante. Poche parole, un “Ciao Livorno” prima di cominciare il concerto. Ma chi si aspettava una musica buona per guardare le stelle, inizia ben presto a stropicciarsi gli occhi e ad aguzzare le orecchie, davanti ad un attacco folgorante che, pur conservando la struttura delle canzoni originali, le dilata, le amplifica, con un’attitudine da “cane rabbioso” che sfiora quasi il noise. La “rivoluzione all’interno della forma canzone” dei Baustelle, dal vivo, è questo concentrato di chitarre elettriche e distorsioni, accompagnato dal suono ripetitivo ed ipnotico di basso e batteria, che fa ondeggiare persino chi ha i bambini sulle spalle; persino me che, in uno slancio di follia – io che sono piuttosto riservato e schivo – ho sentito l’irrefrenabile bisogno – fortunatamente represso – di lanciarmi oltre le transenne e salire sul palco, per chiedere l’autografo ad uno che è, praticamente, mio coetaneo (devo preoccuparmi?); ma, soprattutto il piccolo, ma rumoroso, gruppo di fan che, alzando al cielo le bottiglie di Chianti, invocavano ora “Gomma” de “Il Sussidiario”, ora lo “Ye-Ye” de “La Moda del Lento”. Unico contrappasso al movimento della folla, l’impassibilità del cantante che, in posizione leggermente obliqua, muove praticamente soltanto le bocca e, svogliatamente, pizzica le corde della sua chitarra.
Comunque, nell’ora e mezzo di concerto, i Baustelle riescono a far cantare e ballare praticamente tutti: i bambini che hanno occupato – solo per curiosità – le prime file; ma anche le coppiette in cerca d’ispirazione per il loro amore; così come gli adulti stempiati che non li conoscevano; e i vari turisti e marinai che avevano fatto scalo nel porto toscano. Nel fresco sabato sera livornese, “Detriti, frammenti, citazioni” vengono riassunti nella colonna sonora del “male di vivere” universale, una sorta di prigione da film gangster-noir degli anni ’60-’70, dalla quale sembra impossibile uscire; un treno di canzonette per chi il suo lo ha già perduto: “Sergio” il matto del villaggio, il bandito donna di “Revolver”, il suicida de “I Provinciali”, l’illuso di “Un romantico a Milano”; ma anche chi ha visto deluse le speranze dell’adolescenza (“Le Vacanze dell’83” e “Martina”).
Nel cielo nuvoloso di Livorno, per una sera, non c’è nessun gabbiano a fare alzare gli occhi al cielo; non ci sono stelle da guardare, ma soltanto il verso di un corvo che, intorno alla mezzanotte, scende sul palco a (mal)augurare il riposo.