Il Rock En Seine è da quattro anni un appuntamento immancabile per tutti i parigini amanti della musica Rock. Il Festival, che si svolge dal 2003 ad agosto per due giorni in uno splendido e curatissimo parco in riva alla Senna chiamato Domain National de Sant Cloud, negli anni ha ospitato i live di decine di band del panorama indie internazionale: dagli Arcade Fire ai Franz Ferdinand, dai Pixies ai Radio 4, dalle Electrelane ai Sonic Youth ai White Stripes ai Chemical Brothers, miscelando abilmente superstar ad artisti meno celebri e dando, giustamente, spazio anche ad gruppi indipendenti della scena nazionale.
Per l’edizione 2006 il cartellone prevede per venerdì 25 Morrissey, Dirty Pretty Things, Nada Surf e Calexico sul palco principale, la “Grand Scène”; The Raconteurs, Kasabian, Clap Your Hands Say Yeah, India Aire e Wolfmother sulla “Scène de la Cascade”; Dj Shadow, Tv On The Radio e tre gruppi francesi (French Paradoxe, Neimo e Dead Pop Club) sulla ” Scène dell’industrie”. Il costo dei biglietti è più che abbordabile: 39 euro per l’ingresso giornaliero, 65 per entrambi i giorni. Certo il numero delle bands non è (ancora) paragonabile con le centinaia di gruppi che si alternano fin dal primo mattino nei festival d’oltremanica, ma ciò nonostante la qualità della proposta musicale è ottimamente eterogenea e qualitativamente alta. In più Rock En Seine gode del pregio di poter essere seguito in una città incantevole come Parigi, tra le suggestioni romantiche della Tour Eiffel in lontananza ed il fascino delle architetture versailliane che nel parco abbelliscono perfino l’area dei parcheggi.
All’arrivo nel Domain De Saint Cloud, nonostante la provocatoria maglia ” Italia Campione del Mondo 2006″ indossata da uno dei quattro dummies, veniamo accolti con grande cortesia dai membri dell’organizzazione, che all’ingresso distribuiscono il programma del giorno e una piccola custodia con dei tappi per le orecchie che si riveleranno molto utili a serata inoltrata”…
Dopo un paio di birre parecchio annacquate che non fanno onore alla Heineken, fornitrice ufficiale della manifestazione, e dopo aver perso Calexico e Wolfmother a causa del traffico parigino, mi dirigo verso l’assolato prato della ” Grand Scène” dove con qualche minuto d’anticipo iniziano a suonare i Nada Surf. Confesso apertamente di aver amato maledettamente il college rock molto Mtv oriented di ” Popular ” ““ uscito ormai undici anni fa ““ e altrettanto candidamente devo ammettere di averli persi di vista in seguito, etichettandoli snobisticamente come musica commerciale per giovani “alternativi”. Beh, vedendoli dal vivo, mi sono ricreduto. Li avevo colpevolmente dimenticati, invece riascoltando pezzi come ” Inside Of Love “, ” Blanket Year ” , e la stessa “Popular” cantata da tutti i presenti ““ compreso il sottoscritto ““ ho riscoperto un gruppo che ha nel suo dna la migliore tradizione pop rock americana degli ultimi anni (The Shins, Death Cab For Cutie e Weezer), interpretata con sensibilità e grande classe. “Le Pour Ca”, chanson tratta dal penultimo ” Let Go”, oltre ad eccitare il pubblico d’oltralpe per ovvi motivi idiomatici, conferma la versatilità del gruppo newyorkese, capace di passare dal pop solare di ” Hi Speed Soul” alla fascinosa ombrosità della canzone d’autore francese. Ottimi.
Mi sposto velocemente sul secondo palco dove alle 18 mi aspettano gli attesissimi Clap Your Hands Say Yeah. Sugli scudi grazie al passaparola di blog e webzine, gli statunitensi CYHSY hanno rappresentato il fenomeno musicale indipendente dello scorso anno. L’omonimo debut album poi è stato giudicato dalla stampa di tutto il mondo come uno dei migliori lavori del 2005. Più che lecito quindi attenderli con impazienza dal vivo. L’impressione, già al primo pezzo, è però che nel migliore dei casi oggi i CYHSY non siano nella loro forma migliore. Il cantante sbaglia subito l’attacco del primo pezzo, prosegue intonando i versi in modo irritantemente sguaiato, con un tono eccessivamente basso e non di rado fuori tempo. Il gruppo non è che lo aiuti molto, così come l’impianto acustico non perfetto. Fatto sta che perle di bellezza indie pop come ” My Yellow Country Teeth” e ” Upon This Tidal Wave Of Young Blood” suonano come sbiadite copie di quelle sentite su cd. Dopo neanche mezz’ora abbandono la “Scène De La Cascade”deluso e dubbioso. I Clap Your Hands Say Yeah sono musicalmente un mezzo bluff? Hanno suonato così male per colpa dell’acustica, perchè sono essenzialmente una band da album e non da live o perchè semplicemente sono incappatti in una giornata storta? A posteriori mi viene da pensare che la risposta più probabile sia la terza, ma non escluderei la possibilità che la band non riesca ad esprimersi dal vivo come in studio. Li attendiamo alla prova d’appello, nel frattempo ci ” accontenteremo ” di ascoltare in loop il loro debutto”…
Non tutto il male viene per nuocere ad ogni modo. A causa di questo inaspettato flop riesco a tornare in anticipo rispetto alle mie previsioni verso il palco centrale, dove alle 18,45 suonano i Dirty Pretty Things di Carl Barat. E finalmente si respira vera aria da festival. La Union Jack impera sul palco e tra il pubblico e Barat e soci sono in forma smagliante, nonostante l’ex Libertines abbia un braccio quasi fuori uso ( il braccio è sorretto, manco a dirlo, da una bandiera britannica”…). I DPT suonano potenti, nervosi, punk, ruvidi, pop, e praticamente mi ritrovo ad ascoltare un concerto dei migliori Libs senza Pete Doherty (il che non so quanto potesse essere migliore, visto che ho assistito anni fa ad un loro concerto per la promozione di ” Up The Bracket” e Doherty era talmente intrippato da non riuscire neanche a suonare due accordi di fila”…) . Veri eredi di quel suono che per me è quello inglese per eccellenza i DPT danno l’impressione di non poter neanche essere paragonati ai Babyshambles, perchè anche se suoni volutamente punk sei sempre un musicista e non un idolo bohèmien per le ragazzine. Carl Barat questo l’ha capito e non sfugge ai suoi impegni anche con un braccio rotto, suona canta balla fuma, fomenta il pubblico che delira quando viene annunciata ‘in the memory of The Libertines’ l’anfetaminica ” Death On The Stairs” e prosegue il set con tutto il repertorio di “Waterloo To Anywhere”, dal reggae clashiano di “Gentry Cove” al punk vertiginoso di ” You Fucking Love It”. Guardandomi attorno vedo che non c’è nessuno fermo e ben pochi senza pinta di birra in mano, come lo spirito d’Albione insegna. Uno dei live della giornata più intensi si conclude nel migliore dei modi: “I Get Along”, un altro omaggio di libertina memoria..Così si interpreta un live da festival, potenza, sudore, birra, stile e divertimento. Grandi. Ho l’impressione che se per caso Pete decidesse di riprendere a fare il musicista, con un Carl Barat così non sarebbe impossibile rivivere i fasti del passato. Up The Dirty Pretty Things!
Con calma mi dirigo nuovamente verso il secondo palco per vedere i Kasabian alle 19,30. Gli inglesi hanno sostituito Richard Ashcroft che a pochissimi giorni dalla sua performance aveva annullato il suo impegno per motivi che ci sono oscuri. Questo cambio di programmazione non credo sia dispiaciuto alla maggior parte del pubblico, vista la parabola creativa discendente che sembra aver colpito l’ex leader negli ultimi due album. I kasabiani godono della presenza della quasi totalità del pubblico ““ non meno di 40 mila persone ““ perchè nel palco minore suonano i misconosciuti francesi French Paradoxe mentre quello principale è vuoto in attesa del live di tal Patrice che suonerà la sua squallida miscela di reggae ed hip hop alle 20 e 25. Pur non proponendo certamente nulla di nuovo nè di particolarmente interessante (a chi scrive il gruppo non ha mai fatto impazzire), i britannici sanno stare sul palco e sanno come si suona davanti a migliaia di persone. Sergio Pizzorno interagisce col pubblico in continuazione, infiamma la “Scène de la Cascade ” con la primalscremiana ” Club Foot ” e col nuovo singolo ” Empire “, in una miscela vorticosa di beats dancey di scuola mad-chesteriana e chitarre rock taglienti. Sfortunatamente per me e per chi legge, dopo qualche decina di minuti sono stato colto da una tremenda fame che, nonostante stessi apprezzando il concerto, mi ha trasportato direttamente verso gli stand gastronomici. Mentre mi allontanavo però osservavo il pubblico che ballava e cantava, quindi in sostanza (a posteriori) credo proprio che avrei dovuto azzittire i demoni della fame con un’altra birra e sarei dovuto restare stoicamente li a godermi lo spettacolo. Ma all’appetito non si comanda, quindi”…