Il film di Sofia Coppola appartiene alla categoria dei capolavori mancati. A quella categoria di film sui quali di solito i critici si astengono dal trarre giudizi definitivi, lasciando al pubblico l’ultima parola: sarà il tempo a decidere se farne un cult, oppure ad abbandonarlo all’oblio come un’ingombrante porcellana parcheggiata in soffitta.
I francesi, che lo videro a Cannes, reagirono con dei fischi e molte perplessità , forse perchè si aspettavano una versione più rigorosa e più attentamente filologica della Rivoluzione Francese. Sofia Coppola ha invece sfornato un’opera personale, del tutto incurante delle ricostruzioni storiche: il palazzo di Versailles, gentilmente offerto dal governo, non è infatti che l’occasione di uno sfondo rococò, in un film che della storia francese si cura ben poco.
Per di più, la passione della regina condotta dal popolo inferocito fuori dal suo palazzo dorato sembra più un forzato tributo ai libri, che un finale vero e proprio, visto che l’opzione del climax drammatico, pur offerta dalla Storia (la ghigliottina), viene deliberatamente scartata.
Marie Antoinette è il racconto di una ragazza come tutte quelle che popolano i film della regista: la vita della corte di Francia non è uno spunto narrativo, ma solo un contesto, come la provincia ne Il giardino delle vergini suicide, o l’albergo-prigione di Lost in Translation, in cui l’annoiata Scarlett Johansson cercava di trovare qualche sogno d’evasione ad una vita piena di luci, ma grigia.
Ma non è tanto sul piano dei contenuti che si resta ancora incerti, quanto piuttosto sullo stile della Coppola, impegnata a fare un riassunto di tutte le sue esperienze precedenti, a cercare forse di superarle con uno stile più maturo, oppure a rielaborare e ad adattare il contesto dell’epoca a formule ed immagini culturalmente abusate. Si pensi solo al manifesto del film, in cui Kirsten Dunst ammicca come Lolita. E’ un’opera che è anche una scommessa sulle sue capacità .
La prima impressione è quella di un film completamente impazzito, in cui tutto si mischia, seguendo un percorso postmoderno che è la rilettura in chiave pop della vita di questa donna di fine settecento: alla musica d’epoca si mischia quella contemporanea, ai rigorosi balli di corte fanno da contrappunto le folli serate in maschera o ai tavoli da gioco, all’amore legale e freddo con il futuro re di Francia si oppone la passione da fotoromanzo per il conte svedese, ai vincoli dell’etichetta rispondono gli sgargianti colori dei dolci e delle caramelle divorate da Maria e dalle sue favorite, così come i costumi d’epoca sono rivisti da Milena Canonero in colori pastello, e ancora le acconciature, le scarpe, i pettegolezzi, i folli animali domestici. Il nobile e il volgare trovano un posto comune, il sublime e il kitsch non sono mai del tutto scissi, Vivaldi si sposa con Siouxsie and the Banshees (tra gli altri, la colonna sonora di Marie Antoinette ospita pezzi di The Radio Dept., The Strokes, New Order, Gang of Four, Adam and the Ants). Non è solo una rilettura, è un vero pastiche dal quale è difficile districarsi, dal quale si resta a volte sorpresi, a volte attoniti, ogni volta che il film cambia registro, si affida ad uno stile diverso, assimila e rielabora un bagaglio visivo.
A volte, il film sembra davvero sfuggirle di mano, subendo impennate e rallentamenti senza un preciso ordine di logica drammatica, a rischio di implosione. Anche questo fa parte del postmoderno? Potrebbe darsi, ma è anche questo uno dei motivi che rende l’opera di difficile lettura. Se Sofia Coppola ha imparato una cosa, è quella di diffidare dai giudizi definitivi e alle caratterizzazioni elementari che da sempre hanno fatto dei film americani i padroni del mercato. Il film è forse una copia del suo personaggio: tutto e insieme il suo contrario. |