In Grizzly Man c’è una qualità , a mio avviso, che spicca tra le altre come la più straordinaria. E’ il modo in cui spesso lo spettatore riesce a distogliere l’attenzione dal punto apparentemente più interessante del documentario: le tragiche circostanze che portarono alla morte di Timothy Treadwell, animalista, presunto guerriero della salvezza degli orsi del Nordamerica. Per un film normale, di finzione o meno, sarebbe un’occasione di climax da non poter lasciar sfuggire. Invece Herzog preferisce parlarne solo indirettamente. Ci sono molti dettagli che connotano e rafforzano la sua scelta stilistica di voler cancellare quasi ogni traccia di tensione drammatica, come quella di delegare la narrazione dei dettagli della carneficina al coroner che esaminò i corpi, il quale non può che parlarne con rigore scientifico, in una fredda ed impersonale camera d’obitorio. Questa è una componente da non sottovalutare: affidandosi alle emozioni, infatti, Herzog avrebbe probabilmente scelto la strada della commiserazione e dell’omaggio, facendo di Timothy Treadwell un eroe. Guardando il film, sembra un proposito assai lontano dalle sue intenzioni.
Con molto pudore, evita persino il colpo basso di portare la testimonianza diretta della strage, attraverso un nastro del quale ha pur disponibilità e in cui si presume si sentano le voci e le urla durante il concitato momento in cui l’orso sferra l’attacco mortale all’uomo e alla sua fidanzata, deceduta assieme a lui. Molti altri documentaristi, come ad esempio Michael Moore, non avrebbero esitato un secondo.
Proprio in quella sequenza, credo, spicca un’altra evidente e brillante caratteristica di questo documentario: Herzog stesso sta ascoltando il nastro con delle cuffie e dopo aver spento la registrazione consiglia alla proprietaria di distruggerla quanto prima. Contrariamente alla tradizione del documentario, in cui la voce over viene spesso definita la “voce di Dio” e carica le immagini di un significato che sembra necessario e immanente, la voce del regista si palesa così da subito come una forte presenza autoriale, come l’istanza che ricostruisce il senso in base alla propria visione, rinunciando esplicitamente all’obbiettività .
Con questo procedimento, egli dichiara l’arbitrarietà della sua operazione, che parte dalla ricostruzione del materiale girato da Timothy nel corso dei suoi soggiorni in Alaska, passati a studiare da vicino gli orsi, tra gli animali più pericolosi della Terra.
Il film però cambia quasi subito d’aspetto: non è più un film sul suo protagonista, ma la storia di come il regista matura una propria visione sulla sua esperienza individuale. E’ uno sguardo che si forma parallelamente alla visione dei filmati dello sfortunato animalista, segnando una netta presa di posizione circa la presunta oggettività che solitamente si riconosce al genere documentario. Su un’opinione che si crea a partire da una serie di testi, e non li precede.
Herzog mantiene uno sguardo sempre freddo, mancando volutamente di partecipare (se non in un breve momento) alla commozione che prende gli amici di ricordare Timothy. Resta coerente fino all’ultimo con il proposito di non farne un’agiografia, bilanciando i momenti emotivamente forti con interviste in cui si argomenta come l’uomo in realtà non fosse che uno spericolato idiota, mosso da manie di protagonismo che sfociavano in un’idea distorta dell’ecologia.
Lo sguardo dell’autore prevale su tutto, modellando gradualmente i fatti secondo la sua visione della vita, della natura umana e, in ultimo, anche del cinema. Il regista non sembra condividere nulla della crociata intrapresa a favore degli orsi e a tratti non si astiene dall’evidenziare le posizioni deliranti. Gli interessa solo la sua posizione di uomo solo, costantemente sull’orlo della follia proprio nel momento in cui cerca una qualche forma di senso alla sua esistenza. A interessarlo è principalmente la sua dimensione interiore, i motivi che lo hanno spinto ad abbandonare la civiltà , l’uomo, e a sognare di poter vivere come un orso in un ambiente completamente alieno ed ostile. Se vi è una risposta alla fine di questo documentario, è che Treadwell venne rifiutato anche dal mondo degli orsi. Come molti dei protagonisti dei film di Herzog, il suo tentativo di vivere in una qualche armonia è destinato al fallimento. Verso il suo tentativo, il regista ha solo un senso di fredda pietas.
“Quello che mi perseguita è che nel viso di tutti gli orsi che filmò Treadwell non ho visto nessun segnale di familiarità , nè di comprensione, nè di pietà , ma ho visto solo l’indifferenza suprema della natura: per me, non esiste un mondo segreto degli orsi, e in questo sguardo non vedo altro che la dimostrazione che a loro interessa solo il cibo. Però, per Timothy Tradwell quest’orso era un amico, un salvatore”.