Si può dire senza ombra di dubbio che è l’opera più estrema di Lynch. Forse si potrebbe anche arrivare a dire che è vero che il regista sia arrivato a giocare con il pubblico e con il suo nome, cercando a tutti i costi la provocazione totale.
La provocazione è quella di fare un film completamente girato nella testa di qualcuno. Lynch si prodiga nel confondere le carte sul proprietario della testa in merito: è la sua o quella di Laura Dern?
Comunque, parte come un film confuso ma comprensibile per i primi trenta o quaranta minuti e poi improvvisamente abbandona qualsiasi logica, scardinando il concetto di causa/effetto in modo ancora più radicale di quanto non facesse Mulholland Drive.
Potrebbe essere cosa? Un melodramma come il film che sta girando il regista Jeremy Irons? Oppure è una pirandelliana emanazione della finzione sulla vita reale, secondo un intricato gioco di piani narrativi e temporali? Jeremy Irons sta girando un film su una coppia adultera: il remake di un film mai finito, visto che l’originale venne sospeso per la morte dei due protagonisti, uccisi per gelosia dal vero marito. Ovviamente, anche il marito dell’attrice Laura Dern è follemente geloso, e la sceneggiatura è tratta da una leggenda polacca, forse è per questo che nel film ci sono scene in polacco? Ma tutti i pezzi di questo puzzle c’entrano davvero? E’ davvero necessario cercargli una collocazione?
Cosa ne viene fuori? Un film tremendamente affascinante, frutto dell’incredibile senso del cinema di Lynch. Difficile dire se tutto il pubblico si presta al gioco, ma è probabile che molti lo facciano controvoglia. Perchè la sensazione che lascia Inland Empire è quella di un sottile gioco di ipnosi, di un coinvolgimento che va molto oltre la nostra reale volontà di partecipazione. Spesso durante la visione si ha la sensazione di essere totalmente passivi, legati a quello che Lynch ha deciso di farci vedere: non c’è più nemmeno quel lavoro mentale a cui spingeva Godard nei suoi film più sfilacciati, accostando gli elementi e i materiali, affidando al nostro bagaglio culturale il compito di produzione del senso.
Tre ore di film, tra primi piani fissi e lunghissimi, incredibili giochi di luce ed ombra, passaggi decisamente stretti e salti temporali vertiginosi, figure ricorrenti e archetipi, e la sensazione di essere finiti (come forse è finita la protagonista) in un relais, in un buco nero della razionalità . Dal momento in cui Laura Dern fa entrare quella strana signora in casa? O nel momento in cui entra in quello scantinato che poi da su una casa/set in cui lei finisce intrappolata? Oppure nel momento in cui compire l’adulterio (ma lo compie davvero?) Prima però si è vista ad un tavolo, nello stesso studio, con l’attore del film che sta girando e poi con il regista. Ecco, è su questa confusione di piani, di scene che si ripetono senza un ordine, di personaggi che sbucano nel film senza una causa apparente e altrettanto misteriosamente spariscono, che “Inland Empire” costruisce il suo fascino. Il fascino del totale abbandono della linearità .
Lynch arriva persino ad implodere su se stesso nei mille rivoli che ha creato. A quel punto però si spera che lo spettatore abbia già rinunciato a ricostruire il senso delle immagini, e si sia lasciato sedurre dall’esperienza.
Come riesce Lynch a rendere questa atmosfera allucinata, totalmente priva di legami con la realtà ? Fedele alla tradizione surrealista e al cinema di Bunuel, lo fa giocando con gli oggetti, con le situazioni e i personaggi: in Inland Empire ci sono dei brandelli di senso. Gli stessi che si ritrovano nei sogni dopo che la coscienza ha riordinato il lavoro onirico: così nel film ci sono oggetti e personaggi ricorrenti, dei significanti a cui la razionalità dello spettatore si aggrappa disperatamente. L’uomo con la lampadina in bocca, la ragazza che piange davanti al televisore, la famiglia di conigli vestita in giacca e cravatta, la vecchia signora che capita in casa di Laura Dern, la prostituta con la gamba di legno e la scimmietta, il cacciavite, il ricorrere del 4-7″…
La lista degli oggetti fonte di spostamento e condensazione potrebbe essere ancora più lunga: archetipi o macguffin che spingono lo spettatore a trovare qualcosa che non c’è, a fuggire dalla trappola di immagini e sequenze agglomerate l’una sull’altra. Ci sarà pure un senso nel modo in cui la Dern si ritrova improvvisamente in un cinema vuoto a vedere la sua stessa storia, mentre la stessa sequenza viene vista in televisione da una ragazza che piange. Vale la pena trovarlo?
Film scritto, diretto, montato e prodotto da David Lynch, che si cimenta con il digitale: una finestra aperta sul cinema del futuro, uno dei film fondamentali del decennio.