Se si esclude il fastidio che si prova a dover constatare che ogni decennio ha il Mean Streets che si merita, si può dire che questo film di Dito Montiel non è affatto male. Dopotutto, ha fatto incetta di premi: miglior regia al Sundance Film Festival, premio della settimana della critica niente meno che a Venezia. C’è però una punta di sospetto nello stabilire il momento in cui finisca l’autobiografismo e cominci il calcolo del capolavoro a tavolino, senza per questo nulla togliere al talento e alla buonafede di Montiel, regista e allo stesso tempo sceneggiatore di un suo romanzo, su cui si è a suo tempo rivolta l’attenzione di Robert Downey Jr.


Il fatto è che la macchina a mano, un certo intimismo, i tagli di montaggio liberi e persino le infrazioni alla grammatica classica mettono il dubbio che tutto sia un po’ studiato sulla carta, così come i continui flash-forward, l’asincrono di certe sequenze che vuole confondere i piani narrativi, l’irruzione fisica della sceneggiatura all’interno del film, tramite l’inserimento di alcune battute del copione direttamente sull’immagine.


Perchè se non fosse per questo catalogo di concessioni poetiche, Guida per riconoscere i tuoi santi non sarebbe poi troppo diverso da Bronx (1993), opera d’esordio di Robert De Niro che forse ha avuto meno riconoscimenti a causa di uno stile decisamente più classico e meno accattivante. Qui come là , la figura del padre, della povertà  e del quartiere restano centrali, così come le difficili convivenze razziali: i santi del titolo, difatti, sono quelli che incontra il giovane Dito durante la sua adolescenza nel Queens, e ognuno di loro rappresenta una strada da percorrere nella vita. La possiblilità  di restare nella strada, nell’isolamento e nella tragedia, oppure quella di uscire dal piccolo mondo di degrado e andare in California (anche qui terra promessa, come sempre).


Su tutto, manco a dirlo, c’è la lunga ombra del primo Martin Scorsese.
Che i riferimenti biblici non manchino lo dimostra il fatto che tutto il film, costruito sui due piani del passato e del presente, del ricordo e del reale, ruoti intorno al ritorno del figliol prodigo dal successo raggiunto ai luoghi della miseria giovanile.
Il film ha una sua potenza, una credibilità  assai rara per il cinema americano, un cast azzeccato su cui spicca l’interpretazione di Chazz Palminteri (c’era anche in Bronx, del resto), e uno sguardo commovente e allo stesso pudico sui piccoli drammi dei protagonisti. Se la messa in scena resta furba e ammiccante verso un pubblico selezionato, la storia è invece poderosa, a volte davvero toccante, si costruisce un pezzo alla volta e le si perdona qualche clichè pasoliniano come l’incosciente cattiveria, la sessualità  primitiva dei ragazzi che non sono mai usciti, nemmeno una volta, a vedere la città  e che quindi hanno una cognizione approssimativa della civiltà .


Solo il finale lascia un po’ delusi: del resto, è pur sempre un film americano, e nonostante il velo di indipendenza produttiva, al pubblico d’oltreoceano piace sempre vedere che i conflitti interiori vengano risolti, e mai lasciati in sospeso.