Avverto vibrante tensione attorno a questo disco. Palpitante attesa e grandi aspettative s’intrecciano trovando sfogo nelle scariche sulla puntina del mio stereo, o forse sono solo gli scricchiolii del legno sovraincisi a “Asleep on a train”.
Elettronica minimalista o forse minima e basta, con il consueto garbo e il giusto dosaggio cui Ben Cooper ci aveva già abituato. Niente pathos o intro finto-shoegazing che avevano decretato il successo di pezzi quali “Ten Thousand Lines”, “Hum” o “Some Crap About the Future”. In questo senso nel passaggio da Electric President a Radical Face assistiamo ad una maturazione del suono, da un profilo pop frivolo ma appassionante, in stile Death Cab For Cutie, ad un suono un po’ più impegnato, soprattutto dal punto di vista dei riferimenti. Una svolta “radical”.
“Ghost” fa nuovamente leva sul binomio acusticità /elettricità , ma questa volta l’ago della bilancia gioca decisamente a favore dell’apparato acustico, non è difficile scorgere l’ombra dei Neutral Milk Hotel nel susseguirsi delle tracce. Un elettricità minima, come dicevamo, rilegata per lo più a flussi d’energia abbozzati in sottofondo o a giocosi orpelli con cui Ben agghinda le sue marcette.
Tra le novità anche la decisione di apportare sonorità lievemente esotiche, affidate a fischi, fisarmoniche e mandolini, che, a ben sentire, ti farebbero venir voglia di archiviarlo lì, di fianco a Beirut ed A Hawk and a Hacksaw.
Inutile dire che mi aspettavo di più, prendo nota di una svolta “impegnata” anche dal punto di vista delle liriche (i fantasmi sono un po’ il filo conduttore del disco), ma mi manca l’originalità ingenua del “Presidente elettrico”.
Avrà comunque modo di farsi le spalle più larghe, il tempo è dalla sua, freccetta verde verso l’alto per lui.