Centochiodi è stato annunciato dallo stesso regista come il suo ultimo film di finzione. Dopo una lunga carriera, Olmi ha infatti deciso di tornare alle origini del documentario, campo nel quale mosse i primi passi nel cinema circa cinquanta anni fa.
Questo è un film poetico, nel senso che procede più per associazioni dirette che non per passaggi logici.
Quando Raz Degan e Luna Bendandi vengono ripresi in un bosco in riva al Po, di notte, mentre un orchestrina suona “Non ti scordar di me”, il ricordo va inevitabilmente ad uno dei più bei baci di tutta la storia del cinema: quello che si scambiano, sempre in riva ad un fiume, Sylvia Bataille e Georges D’Annoux in Partie de campagne (1936) di Jean Renoir.
Centochiodi potrebbe anche essere interpretato come un film dal valore messianico, ma a dire la verità la parte del confronto religioso è quella che appare più debole e predicatoria, almeno quando viene messa a confronto con i momenti in cui Olmi sceglie la via diretta delle immagini piuttosto che quella indiretta delle parole. Scelta coerente, visto che il tema del film è proprio quello dell’abbandonarsi all’umanità recuperando una sorta di ignoranza positiva circa i legami della civiltà .
Qui si torna appunto a Renoir e al suo concetto di plein air, che sembra la poetica espressa da Olmi in questo film girato nel mantovano. Il modo in cui dirige (con gusto documentaristico, appunto) l’erba, gli insetti, il fiume e i moti dell’acqua sono molto simili a quelli visti in Partie de campagne e Le dèjeneur sur l’erbe (1959). Qui come là , il ritorno ad una natura non selvaggia, ma idilliaca, serve al protagonista come comprensione dei limiti della civiltà e delle sue sicurezze. L’incontro con i luoghi e i tempi distesi degli abitanti del piccolo paesino lombardo rappresentano per il protagonista una rinascita, ben più radicale di quella simbolica di inchiodare letteralmente i libri di una polverosa biblioteca. Non è un caso che l’incontro inizi con una pioggia purificatrice.
Se Guy Montag in Fahrenheit 451 cercava di salvare i libri da un regime totalitario che sopprimeva l’immaginazione, qui Raz Degan cerca di sfuggire alla pesantezza accademica, al rigore e allo schematismo della filosofia e della teologia per arrivare al contatto immediato con la verità delle cose. Sulla sua strada, sono molto importanti non solo i personaggi del piccolo villaggio, che vivono in armonia con un ambiente continuamente minacciato dall’estinzione (il mostruoso siluro priva il fiume dei pesci che vi sono nati, le ruspe minacciano continuamente di sbaraccare gli abitanti), ma soprattutto l’incontro con la panettiera Luna Bendandi. E’ sicuramente lei il personaggio più renoiriano del film, non solo per la citazione di Partie de campagne: la sua pienezza, sessualmente vitale e priva di malizia, ricorda quella di Nenette (Le dèjeneur sur l’herbe) mentre la sua commovente purezza richiama Henriette, soprattutto nello splendido primo piano finale in cui Olmi fa comparire un velo di lacrima sul suo viso innocente.
Se ne Le dèjeneur sur l’herbe il protagonista imparava a mettere in crisi le sue certezze scientifiche, l’immersione panica di Centochiodi libera Raz Degan di una cultura non più rivelatrice, ma eccessivamente vincolante.
Il modello israeliano, con sorpresa, risulta un Cristo di campagna più credibile di quanto ci si potesse immaginare. Il film lascerà discutere sul suo significato spirituale, ma piace considerarlo principalmente per ciò che è, una splendida elegia della spontaneità . Il cinema italiano, sempre più moribondo, perde così anche gli exploit di questo fantastico autore.