Non è che ci si ammazzi di lavoro di questi tempi, si sa. Colpa del caldo, ma anche dei dischi. Quelli difficili. E sia chiaro, non parlo di difficoltà nel descrivere un certo tipo di sonorità o nel trovare accostamenti stilistici che stiano in piedi, perchè, ahimè, risulta fin troppo facile, e se vogliamo anche un tantino ripetitivo, rispolverare tutti quei discorsi dell’ondata brit/new wave degli anni ’00, quella che dai Franz Ferdinand arriva ai Maximo Park, passando per The Rakes, The Futureheads, Art Brut, etc. Tantomeno parlo di ascolti impegnativi per la pazienza con cui si deve scavare in profondità , perchè qui è tutto veloce ed immediato. Intendo piuttosto la difficoltà nel rispondere ad una domanda che mi pongo in continuazione: “ma questo disco mi piace oppure no?”.
Ecco, questo non riesco a capire, perchè se infilo “Our Earthly Pleasures” nel lettore e aspetto che la bocca sia piena di tutte e dodici le tracce per raccontare cosa avverte il mio palato, la sentenza è amara: niente di chè. Sento come le mucose rivestite, i denti impiastricciati, sento capsule nuove, impiantate come glassa a ricoprire i tanti nervi scoperti, quelli che fulminavano il cervello ad ogni ascolto di “A Certain Trigger”.
Poi, di tanto in tanto, decido di ascoltare le tracce da vicino, isolate dal contesto, ingigantite con lenti e specchi. Faccio ammenda, molti pezzi girano che è un piacere, mai banali negli arrangiamenti come nelle liriche di Paul Smith; c’è anche un discreto tasso di energia, c’è di che divertirsi, insomma.
Allora decido di farmene un’opinione definitiva, li osservo da più angolazioni: studio le reazioni della gente durante un dj-set, mi confondo tra la folla ad un concerto recente. Li trovo ancora i migliori della loro generazione, in fin dei conti. Trovo divertente il dialogo impettito e convulso di chitarre e tastiere (“Our Velocity)”, efficace l’arpeggio introduttivo di “Books From Boxes”, un vero marchio di fabbrica. Le ginocchia si incrociano veloci in “A Fortnight’s Time”, e mi perdo sulla melodia liberatoria di “Parisian Skies”. Mi perdo, dunque. E mi confondo.
Non fosse che a fianco del mio letto giace un 7 pollici dall’artwork magnetico e dallo styling impeccabile, come quello di “Going Missing”, direi che “Our Earthly Pleasures” è un disco eccellente.
Il confronto con il predecessore, però, è perso in partenza. Per una minore carica emotiva; e per l’assenza di pezzi definitivi. “Apply Some Pressure” e “The Coast Is Always Changing” rimangono ancora su un altro pianeta.