Questo biopic sulla vita di Edith Piaf riesce davvero a colpire nel segno, e non solo perchè la drammatica vita del mito della canzone francese, morta a soli quarantasette anni (ma ridotta da tempo a poco più che un mucchio d’ossa), rappresentasse da sola un ottimo spunto per la sceneggiatura.
Presentato al Festival di Berlino come film d’apertura, è un mirabile affresco di un’esistenza sofferta ed infelice, mai troppo patetico e mai troppo paternalistico. Costruito su una struttura temporale discontinua, fatta di flashback e ritorni, riesce persino a fare a meno della facile arma della colonna sonora nei momenti di maggiore effetto, consegnando il ritratto di una donna ancora prima che quello di una cantante.
Se l’inizio indugia un po’ troppo sull’atroce infanzia dell’artista, calcando la mano su situazioni eccessivamente lacrimevoli, come la traumatica separazione dalle prostitute che l’avevano accudita con cura ed amore, tutto il film si lascia poi trasportare da un notevole fascino visivo, che emoziona molto più della sua celebre voce. Se l’infanzia è la fase dei campi lunghi, bucolici, sulla Normandia e la Bretagna, in cui la bambina è quasi in secondo piano, presa in mezzo tra le donne del bordello, il padre saltimbanco itinerante e la madre che la abbandona per seguire futili ambizioni, è invece splendida la fotografia della Parigi in mezzo alle due guerre, dove la Piaf mosse i suoi primi passi nelle hall, strappata ad una vita di accattonaggio ed elemosina nelle stradine di Montmartre.
E’ però ancor più sorprendente quella di New York, dove la cantante soggiornò subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, trovando il successo anche oltreoceano. Senza dubbio, questa centrale è la parte migliore del film: la città viene onorata dei suoi scorci da favola, enfatizzati da trasparenti che rendono le sue luci ancor più sognanti e romantiche. Perchè è qui che la donna visse i suoi anni più felici, legandosi al pugile francese Marcel Cerdan, campione mondiale dei mediomassimi. Straordinari sono i suoi primi piani alternati ed emozionati all’incontro tra il suo uomo e Tony Zale, match che gli diede la cintura, accompagnati da una delle sue canzoni e dalla sua voce over che legge le loro lettere appassionate. Folgorante è invece il modo in Dahan rende la sua disperazione nel momento in cui viene a conoscenza che Cerdan, per raggiungerla dalla Francia, è morto in un incidente aereo. Ben lontano da una drammaticità classica, il regista si affida ad un piano sequenza muto, giocando tra lo scarto della felicità della donna, che si illude che l’uomo sia finalmente lì con lei (lo ha sognato), e la disperazione, i volti tristi del suo entourage, che sta per darle la notizia. Unico amore degno di essere vissuto, ed evento cruciale della sua vita, nel film la relazione trova giustamente il suo peso drammatico, visto che in suo favore vengono sistematicamente escluse le love-story con altri pezzi grossi come Charles Aznavour e Yves Montand.
Sempre pronto a cambiare stile e registro a seconda delle situazioni, senza mai perdere il controllo del film, Dahan riesce a concepire un film drammatico senza rendersi banale e senza mai giocare sporco, affidandosi alla straordinaria capacità di mimesi di Marion Cotillard, che riesce a reggere il ruolo della Piaf sia da ragazza che da donna, anche quando, in punto di morte, era ridotta a poco più che uno scheletro vivente, gobba a magrissima. In Francia hanno trovato il coraggio di lamentarsi: troppo bella per la cantante, che nella realtà poteva contare solo sulla sua voce strepitosa come arma di fascino.
L’unico difetto del film è forse quello di affidarsi troppe volte al topos del sipario che scende, come metafora della sua vita, ma è un luogo comune che si può perdonare, e a cui si bada poco.
Le musiche, ovviamente, sono quelle del suo sconfinato repertorio, e i classici ci sono tutti.