La notte monumentalizza tutto. Cuce con filo doppio le ferite sulla carne viva, sanguinante, dolore tracimante, sporcizia e pus come emblema della disperazione dilagante. Te ne stavi buttato come un sacco di iuta nell’angolo di un palazzo, disarticolato, arrufffato come un batuffulo annerato, in sembianza di morte, putrefazione e condimento per topi voraci. L’unico sussulto di vita giaceva esangue in quelle due biglie grigiastre, feroci nello scrutare, arrossate di birra a poco prezzo. Credevi di aver trovato la via alla tua divinità . Vapori e fantasmi ad illuminare il buio del cuore. Dicevi che eravamo spacciati, ridevamo ma stavamo morendo della nostra vacuità . ‘E come faccio a salvarmi?’ ti chiesi. Un lungo silenzio perforò le mie orecchie, ingoiai tutta la pienezza discorde della notte immobile che fermenta visioni. ‘Sei morto, fottuto omuncolo borioso’, ti lagnasti tra singhiozzi imbarazzanti e barcollamenti di capo. Giravolte terrifiche, lacrime d’alcool e sudori freddi. Sull’avambraccio appena scoperto scorsi un tatuaggio, nascosto dalla folta pelura da lupo mannaro. Marchiato a vita come un vitello, quel lembo di pelle recitava le parole “The Drones, Gala Mill A.D. 2006”. Una storia lunga e disperata la tua.
Una storia fatta di tonnellate di ascolti di Joe Spencer Blues Explosion e di Nick Cave, quello inacidito e barbiturico, metabolizzati e rigurgitati con veemente classe e delirio artistico. Non c’è un pezzo in quest’album che si mostri impertinente, falso o in eccesso numerico. Tutto è in un equilibrio magico, come il circense che cammina sul filo tenendo una cristalliera su una mano. “Ora cade”, pensi, e invece lo spettacolo incredibile va avanti. Fin dall’iniziale ‘Are you leaving for the country’ appare chiaro che Gareth Liddiard è ubriaco, trascina le parole sbilenche in un saliscendi viscerale e sentito nel profondo. Gareth se ne sta lì come un urlatore in pieno conflitto con tutto ciò che gli sta intorno e da ciò scaturiscono altri pezzi memorabili come ‘Dog eared’, ballata al wiskey e troppe sigarette fumate di fretta, che s’accende di emotività incontrollata con una sezione ritmica incalzante, tonda nel suo vortice, crescente e maledettamente necessaria. Così come nella superba ‘I’m here now’, fenomenale pezzo di rock-blues inacidito, che lascia addosso la stessa sensazione di troppo aceto, un aumento della temperatura ed un inizio di visionaria sudorazione. Un ritmo serrato ma controllato, sexy nell’incedere lento con accelerazioni travolgenti.
Profumo di Jack Daniel’s nella notte cristallina, lampi di bellezza nei tuoi occhi quando mi raccontasti dei concerti senza sosta e del volume d’aria alzato dalla tua prepotenza sonica. Tempi perfetti, coesione tra tutti, una freccia compatta che si dirige feroce verso il cuore sanguinante. ‘Jezabel’, maledetto gioiello che per me brilli ancora se solo ti ricordo. Non mi farò mai vedere in ombra per te, ed allora libera uscita per Fiona Kitschin e Rui Pereira a montare l’aria come panna. E la melodia ti porta via con sè senza attimi di sosta. Non c’è da pensare ma da lasciarsi prendere. La voce nasale e tracimante di Liddiard è una manna per il rock’n’roll che da sempre si nutre di personaggi del genere, anime inquiete che godono solo quando incendiano d’ardore i loro corpi energizzati come cavalli che nitriscono all’alba. Il resto lo fa il basso e la voce languida di Fiona che per la prima volta dopo tre album canta in ‘Work for me’ ed è subito rapimento dei sensi.
Certo non potevi chiudere il disco non dicendo la tua, da solo, mentre malinconico te ne stai con chitarra e armonica a ricordare tutto quello che hai bruciato. La storia è finita, hai relizzato il tuo miglior disco di sempre, vorrei portarti via con me. Ma sarebbe un peccato. Potresti raccontare di te a qualcun altro. E questo sarebbe solo un gran bene.