Ogni tramonto, ogni maledetto tramonto. E’ sempre la solita lacrima, la solita fitta. Le labbra tirate, i denti digrignati nervosamente, i capelli sfibrati. Ci si aspettava di più da questa fatica quotidiana, molto di più. Ci si aspettava di realizzare i sogni, o perlomeno di disegnare un bel quadro. Invece si è costretti a vivere due passi oltre il presente per scorgere una luce in lontananza, per pensare che le cose potrebbero anche essere diverse. Inizieremo una guerra. O almeno una rivolta.
E’ in questo solco della pelle, scavato sera dopo sera, che si conficca “Boxer”. Un disco che travolge per impatto emotivo, per l’eleganza della voce e degli arrangiamenti, per quello che dice. E’ un disco che scuote. Ti afferra nottetempo per le tempie e ti costringe a volteggiare con inclinazioni nuove.
A due anni da quell’Alligator che, nel 2005, mise in subbuglio l’intera blogosfera, i The National ritornano con un album perfetto. Lo si capisce fin dalla prima traccia, dal tessuto piano-driven di “Fake Empire” dove le corde baritonali di Matt Berninger si appoggiano navigate, ma è perfetto anche quando la stanza si riempie di fumo e le bacchette di Bryan Devendorf si fanno precise e severe, (“Mistaken For Strangers”, “Brainy”). Un dipinto decadente, un bicchiere rovesciato, una tappezzeria livida. Una raffinatezza d’espressione che oggi conta pochi eguali. A dimostrazione, si ascoltino i pezzi più lenti e morbidi (“Green Gloves”, “Start A War”). Immaginatevi gli Interpol acustici ed immersi nell’autunno di Brooklyn, immaginate di aggiungere una dose di cantautorato cupo e languido. Ciò che risulta è lucida rassegnazione, è disincanto, è un ballerino di lento, il migliore dell’universo.
Cercavo un disco per l’estate. Ho trovato il disco dell’anno. Almeno per ora.