Il secondo giorno di Festival inizia nel più imprevedibile dei modi e cioè con un set acustico dei Maximo Park. Proprio per questo ci avviamo un po’ prima e raggiungiamo verso le 18 e 30 lo stand di My Space, allestito come un salottino stile Brand:New. E qui l’incredibile. Forse assistimo ad una delle migliori performance della manifestazione, grazie alla commovente intensità  emotiva di Paul Smith nell’interpretazione di canzoni che difficilmente avrei immaginato in una versione unplugged e grazie anche a Duncan Lloyd un chitarrista di tutto rispetto. Tra una maglietta di Leonard Cohen ( la sua) ed una Kiss you better, rimaniamo definitivamente rapiti da una mezz’ora scarsa di grande musica e disponibilità .


Ed eccoci, con il cuore e la testa ancora impregnati delle emozioni profonde che il set acustico dei Maximo Park ci ha regalato, al palco Estrella per vederci i Rakes. A dire il vero non sono un proprio un fan della loro musica, perchè a parte qualche singolo, trovo che ci sia una carenza di canzoni davvero valide nella loro produzione. Problema questo che, almeno dal vivo, riescono ad aggirare con una performance davvero energica e divertente. Niente di memorabile, sia chiaro, ma la gente canta balla, beve e sorride. Non mi sembra così poco in fondo, anzi. . Il tono del festival inizia a salire non appena ci spostiamo nei pressi del Rockdeluxe, dove di lì a poco sarebbe incominciato il concerto degli attesissimi Blonde Redhead. Puntualissimi, come tutti del resto, alle 20,15 iniziano la loro performance con ancora un tramonto meraviglioso che irradia di luce tutto il Parc del Forum. Elegantissimi nei loro completi grigio-neri, i fratelli Pace scortano con la solita maestria sonica la fragile bellezza di Kazu, affascinante nei suoi movimenti tra capelli al vento e chitarre in distorsione. L’esibizione scorre via liscia e coinvolgente, e mi sorprende per la profondità  e facilità  di emozionare, soprattutto da parte di un gruppo sempre molto cerebrale.


Ci serve una pausa ,per cui assistiamo a qualche brano dei Fall un po’ defilati, e ammetto la mia ignoranza in materia. Quello che vedo è un Mark E. Smith in ottima forma e una band che sa assolutamente come stare sul palco e incantare il nutrito gruppo di fan presenti in prima fila. In fondo sono i Fall e non c’erano dubbi sulla qualità  dell’esibizione. Dobbiamo ricaricare le pile, perchè la serata è ancora nulla è dannatamente fresca. Chi lo ha detto che in Spagna fa caldo ? Sembra quasi una di quelle fresche sere di aprile dove è d’obbligo indossare una giacchetta per non tremare.


Ma bando alle ciance che al palco Rockdelux sta per iniziare il concerto di Beirut. E quanto mi dispiace non aver capito prima questo disco, come mi dispiace averlo apprezzato in tutto il suo splendore soltanto perchè risvegliato da questo live set formidabile. Mi piacerebbe viverlo adesso , che brani come “Postcards From Italy”, “Gulag Orkestar” e “Bratislava” luccicano nel mio quotidiano in tutta la loro struggente carica emotiva. Sarà  che lui canta in inglese, ma questa commistione tra musica balcanica e lingua americana è da togliere il fiato. Intanto ci prendiamo una sosta e passiamo al palco CD Drome dove suonano gli spagnoli Sr. Chinarro. Niente di trascendentale, sul disco funzionano meglio, e le trame smithsiane sono penalizzate da una voce troppo monocorde per tagliare fino in fondo. Carichi di energia e a questo punto in trepidante attesa di capire se lo show pomeridiano abbia allentato o meno la carica dei Maximo Park, ci spostiamo dalle parti dell’Estrella Damm, non senza aver fatto incetta di strane bottiglie d’acqua profumate ai gusti più impensabili (ma la sete è sete!) che ci vengono gentilmente offerte, o sbolognate, da solerti e graziose signorine. Mentre parliamo del più e del meno all’improvviso il boato del pubblico ci avverte dell’ingresso della band. Pochi secondi e da dietro le quinte esplode come una palla di cannone il nostro eroe, Paul Smith. Bombetta nera in testa inizia a saltare, a dimenarsi, ad interpretare sulle incessanti note dell’ultimo disco quasi tutte le canzoni in esso contenute; da “Books From Boxes” ad “Our Velocity”, passando per il turbine di “Apply Some Pressure” e “Graffiti”. Svedesi, spagnoli, americani, italiani, tutti insieme a saltare senza sosta. Sudore e freschezza (Ciab, lo vedi, era qui la freschezza!!) per una delle rivelazioni di Barcellona.


Se c’è qualcosa di cui lamentarsi in questo festival, oltre ai prezzi delle bibite è la collocazione dei Modest Mouse al palco ATP, troppo stretto per accogliere la folla in trepidante attesa per la band che si affaccia in Europa per la prima volta, se non erro. Riesco a guadagnare una buona posizione, non troppo vicino al palco a dire il vero, ma si sente bene, e comunque non potevo perdermi i Maximo Park e giungere qui in utile anticipo. Per cui eccomi qui a godermi questo concerto davvero trascinante, pieno zeppo di chitarre (Marr, che si è presentato con un’occhio probabilmente pesto e coperto da una benda, su tutti), e di mani alzate, ritornelli cantati a squarciagola e di pezzi vecchi e nuovi che hanno smosso molti culi tra la folla che si accalcava sotto il palco. Avrebbero meritato uno stage più grande, e io avrei potuto maggiormente godere di uno spettacolo davvero trascinante. Ma insomma, anche nella perfezione ci può stare una sbavatura.
Intanto la notte inizia ad incalzare e sempre all’ATP riusciamo a giungere tra le prime file per i Low, anche se l’orario non si adatta bene ad una formula sonora che meriterebbe più attenzione. Ma l’ultimo lavoro, “Drums And Guns” è troppo bello, per cui riesco a superare la fase di stanchezza che inesorabilmente mi stava fregando e mi godo il concerto con gli occhi pieni di gioia. La scaletta è quasi interamente dedicata agli episodi dell’ultimo lavoro di studio, e la cosa non può far altro che rendermi felice, anche se trascurano troppo gli episodi più movimentati del precedente “The Great Destroyer”. Qualcuno non li regge, tende ad addormentarsi, ma non è colpa della band, che anzi c’è ed è pure in splendida forma, ma proprio perchè una collocazione a notte inoltrata non aiuta nella fruizione di questo tipo di musica: puro slow core d’autore. Sono ormai passate le 4 di notte. Un freddo ficcante preme da tutte le parti, ma c’è ancora voglia di rimanere, di incrociare sguardi e sorrisi e soprattutto di gustarsi i Built To Spill. Pare incredibile ma la voce di Doug Marsch è davvero così come suona su disco: angelica, quasi adolescenziale nonostante un aspetto da ultracinquantenne che l’accompagna e quell’aria da eterno perdente. Tre chitarre che stratificano, s’intrecciano a perfezione per uno degli show più coinvolgenti emotivamente. Pezzi vecchi e nuovi dinanzi ad un pubblico in estatico ascolto, o sono io che confondo l’irrigidimento post folate di vento gelido come reverenza. Comunque davvero un live set degno del Primavera Festival.