E’ lontano, il 2002. Quando tutti noi, indistintamente, ci siamo follemente innamorati dell’album d’esordio di un gruppetto di New York, “Turn on the bright light”, che suonava tanto Joy Division, e forse ci piaceva proprio per questo.
Oggi, quel gruppetto è cresciuto talmente da essere passato dall’indipendente Matador alla major Capitol. Gli Interpol del 2007 fanno uscire il loro terzo disco “Our love to admire”, il primo a non essere interamente autoprodotto. Ammetto di avere mostrato inizialmente una certa diffidenza nell’ascoltarlo, specialmente in quanto memore di quello che era il loro secondo disco, “Antics”, per me assolutamente insipido e ripetitivo.
Punto a sfavore: il singolo che ha anticipato l’album, “The Heinrich Maneuver”, è uno di quei pezzi da radio-dalle-frequenze-nazionali o da MTV. No, proprio non convince, pomposa, con l’impressione di averla già sentita troppe volte, anche senza averla mai ascoltata.
E allora mi blocco. Il dubbio è: proseguo l’ascolto dell’intero album sperando che si riscatti, o meglio conservare il buon ricordo che ho degli Interpol dei tempi migliori e nemmeno mi procuro il disco? Opto per la prima opzione, e l’occhio mi cade sulla copertina”…Un po’ equivoca, un po’ finta, un po’ patinata, un po’ di gusto opinabile, ad opera del fotografo contemporaneo Seth Smoot. Ok, faccio finta di non averla notata e ascolto.
Ed ecco che poi parte “Pioneer To the Falls”: lento arpeggio di chitarra, la voce di Banks che, in crescendo, accompagna morbida le note, finchè si fa avanti anche la batteria: siamo solo all’inizio del nuovo epos degli Interpol. Banks si fa portavoce di una triste dolcezza di fondo, scandita da suoni epici e profondi, è una traccia perfettamente composta, lontana dai suoni di “Antics”, forse il migliore pezzo del disco, che ricorda un misto tra i Blonde Redhead e i Giradini di Mirò di “Dividing Opinions”. Dopo aver lasciato questa struggente ballata alle spalle, si apre “No I In Threesome”, più ritmata, che si trasforma quasi in un lamento in certi passaggi, per poi ritornare alla stasi di “The Scale” nella quale la voce di Banks sembra quasi recitare con tono d’accusa.
Ovunque troviamo i caratteri distintivi della band newyorkese, mistero, oscurità , potenza, epos, ma questa volta in chiave meno diretta rispetto ai precedenti album, che non si notano al primo ascolto, per questo credo che “Our Love To Admire” sia uno di quei dischi che vanno sentiti più volte per essere compresi a fondo.
Ciò non vale (come anticipavo prima) per il singolo, “The Heinrich Maneuver”, sul quale non intendo dilungarmi. Per fortuna, la traccia successiva “Mammoth” è una traccia davvero bella, ottime le chitarre di Banks e Kessel, per non parlare di quanto picchia Fogarino sulla batteria: il tutto alternato a momenti più melodici che rendono il pezzo davvero completo. I toni si smorzano appena alle porte di “Pace Is the Trick”, che ha uno di quei ritornelli che non riesci a toglierti dalla testa appena lo ascolti, pur restando sempre all’interno delle solite atmosfere cupe e tragiche, tra le quali, però, si scorge un bagliore di luce.
Sperando di dimenticarci presto di “All Fired Up”, troppo costruita, senza spunti innovativi ed eccessivamente rock, si è pronti per ascoltare il piano che risuona all’inizio di “Rest My Chemistry”, purtroppo subito interrotto dal suono, a volte troppo ingombrante, delle chitarre.
Il finale è davvero inaspettato: due ballate tristi e malinconiche, musica da camera, con la pioggia fuori che scroscia, suoni alla Dead Can Dance per “Wrecking Ball”, una batteria che cerca di non imporsi troppo per lasciare spazio ad una timida chitarra; suoni un po’ più disturbati invece per “The Lighthouse”, che inizialmente sembra un pezzo cupo dei Pulp, poi, crescendo piano piano, arriva a toni decisamente più epici e alti, andando a mostrare un carattere nuovo per gli Interpol.
“Our Love To Admire” è un album strano. Non riesco ad apprezzarlo totalmente per certe pecche a mio parere imperdonabili (alcuni brani sembrano davvero dei riempitivi), ma d’altra parte bisogna riconoscere che include certe cose davvero belle, forse non nuove, ma arrangiate in modo perfetto. Quindi non credo finirà nella classifica dei migliori dischi dell’anno, ma è sicuramente un album da ascoltare.
Photo credit: Ebru Yildiz