Bisognerebbe avere il cuore di pietra, per fare critica cinematografica.
Perchè se uno lo avesse, come d’altra parte sembra avercelo il tetro critico culinario Anton Ego (nomen omen), allora potrebbe parlare male di Ratatouille, ultima fatica della Disney/Pixar.
Purtroppo per i critici di questa natura, capita sempre di vedere film che li catapultano via dal grigiore delle cripte in cui scrivono e idealizzano l’opera perfetta, e di trovarsi davanti a qualcosa che li riporta al primo magico momento in cui sono entrati in un cinema.
Esattamente come succede al grigio e funereo esperto di ristoranti, in uno dei più bei flashback degli ultimi anni, di ritrovarsi davanti alla ratatouille (un piatto povero, non a caso) preparata da un topo, e di riandare con la mente al tenero ricordo di quella cucinata dalla madre.
E’ proprio qui che Ratatouille si trasforma nel cinema di cui ci si è innamorati, quel cinema allo stesso tempo coinvolgente, commovente e morale che è la quintessenza del mainstream hollywoodiano. Ecco un mondo, quello dei blockbuster, quello dei film che incassano centinaia di milioni di dollari, capace sempre di risorgere dalle proprie ceneri. Il prodotto di un cinema che riesce ad aggiornarsi non perdendo mai la sua anima, quella di un cinema ideologico, fatto e pensato per le masse.
Il caso della Disney è emblematico: da studio in declino a rinata fabbrica dei sogni, grazie alla previdente collaborazione con la Pixar, che ha innervato le solite storie di buoni sentimenti con uno vento decisamente nuovo. Infatti, Ratatouille non fa altro che esaltare lo spirito americano proprio nel momento in cui sembra farsene beffe, con una grande dose di autoironia (la vecchietta armata di fucile). Perchè la morale è sempre quella (nel caso specifico è “tutti possono essere dei grandi cuochi!”), ma i modi per imporla sono profondamente cambiati, rispetto al passato: è emblematico il sermone del giovane protagonista Linguini alla sua cucina, la sua confessione nell’essere un inetto, un ragazzo che si fa strumento, vera e propria marionetta, del talento di un roditore, capovolgendo i ruoli abituali; in altri tempi, la predica sarebbe stata accolta con un’ovazione dalla ciurma dei cuochi, mentre ora i suoi uomini lo lasciano solo, con la sola alternativa di ammettere il suo fallimento.
La prospettiva retorica si capovolge al punto che un’intera colonia di topi riesce in quello che gli umani non riuscirebbero a fare: trovare la scintilla di tenerezza in uomo grigio come Anton Ego, uomo dimesso e deluso, alla costante ricerca dello stupore e dell’ingenuità infantile.
E’ l’esempio più lampante di una cinematografia che ha imparato la cultura del saper perdere, o quanto meno di poter vincere in qualche altro modo, magari accettando i propri limiti. Che è poi il marchio di fabbrica della Pixar, miracolo vivente di come è stato possibile cambiare la storia dell’animazione in appena un decennio (Toy Story risale infatti al 1997). Svecchiare i cartoni animati, ancora legati a formule vecchie, a miti e favole antiche, con i ritmi del cinema d’azione, con storie contemporanee quando non addirittura futuristiche: in Ratatouille non mancano inseguimenti, vorticosi testa a testa come quello lungo la Senna tra il topo Remy e il perfido cuoco Skinner, prospettive impossibili (davvero mirabili quelle nei corridoi delle fogne), e scenografie iperrealiste e digitalizzate come le strepitose vedute dall’alto di Parigi, iperrealiste perchè la mostrano non com’è veramente ma come il topo l’ha sempre sognata.
Non manca nemmeno il senso ideologico di un cinema che tiene fede con ritrovata leggerezza alle sue esigenze di propaganda di valori: il rispetto delle tradizioni, la lealtà , la ricerca del lato umano e sensibile anche nel più cattivo dei cattivi.
Come in tutte le fiabe, non può mancare il doveroso “e vissero tutti felici e contenti”, ma c’è di fondo un piacere dissacratorio verso ciò che è stato l’immobile mondo delle belle addormentate e dei principi azzurri. Quella sottile verve iconoclasta che è uno dei motivi per cui la Pixar riesce a non deludere mai.