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“Quello che non è di moda, non andrà mai fuori moda”. Un disco intimistico, soffuso anche quando le chitarre si fanno più corpose, quasi punkeggianti, e le valvole saturano. Un disco volutamente demodè. A camminare per le strade soleggiate della città con Creme che suona il suo rock sporco dal lettore mp3 ci si sente quasi nell’epoca sbagliata, un frammento dei Sixties sbalzato in un futuro prossimo popolato da splendidi in divise color pastello marchiati come vacche da allevamento e da neo-gangsta postadolescenti dal cappuccio facile, tra vetrine patinate e traffico isterico. Sei decisamente nel momento storico sbagliato, solo quarant’anni di ritardo sono abbastanza per sentirsi un alieno. Da una parte il mondo frenetico e cinico, spietato luna park per chi di scrupoli ne ha pochi; dall’altra tu, un cowboy urbano o qualcosa di simile: restare sempre in piedi è l’unica rivincita. Maurizio Vierucci, in arte Creme, canta di questo, e lo fa con una sincerità ed un’ingenuità spesso disarmanti; i suoi occhi sono quelli di un bambino che scopre l’amarezza dell’indifferenza quando intona i Beatles per il primo amore delle elementari; e poi sono gli occhi di un ragazzo che impara a sopravvivere in una città difficile come può essere Brindisi o una qualsiasi periferia industrializzata. I brani hanno quel sapore delle cose che nascono in una stanza ma parlano a chiunque voglia stare a sentire: Creme fa quasi tutto da solo, compone, suona la batteria, l’armonica, la chitarra e canta. D’altronde, lo dice lui stesso, fare un gruppo è un po’ morire e ci vuole fegato: meglio fare tutto da sè, come dargli torto? Nel disco convivono le due anime di Creme, quella acustica virata spesso verso un country/folk d’oltreoceano (“Ci Sono Molti Modi Per Essere Felici”) e quella più rock, elettrica ed incazzata (“Tu Che Parli Sempre Tu Che Non Ascolti Mai”). Qua e là gioca a citare il Bennato degli esordi, strizza un occhio all’America di Neil Young e intanto ricorda il rocchenroll nostrano dei Tre Allegri Ragazzi Morti e l’indole di certi Afterhours e Moltheni. Un bel disco d’esordio, malinconico e penetrante, suonato come se quella bambina delle elementari fosse ancora lì ad ascoltare. |
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