Dal 2003 i fratelli Matthew ed Eleanor Friedberger non sbagliano un anno.
E così eccoci giunti anche all’album del 2007, “Widow City”. Il consueto album annuale dei Fiery Furnaces.
Sembra passato così tanto tempo da “Blueberry Boat”, l’album che li ha portati sulla bocca di tutti, eppure non è così. E’ strano perchè come lo fanno i Fiery Furnaces, non lo fa nessuno. Mi spiego. Se per molti gruppi il secondo o il terzo album è solamente una riproposizione di suoni già macinati e apprezzati negli album precedenti con l’immancabile caduta nella ripetizione, i fratellini dell’ Illinois, pur essendo giunti al loro quinto lavoro più qualche Ep e compilation, hanno il dono del continuo rinnovamento.
Queste sedici tracce giocano sempre all’interno della matrice musicale che li contraddistingue, è vero, ma ogni volta è diverso. Suoni densi, ritmati, stratificati, punk misto al garage misto al rock, con influenze anni 70 un po’ ovunque. Senza allontanarsi troppo dall’elettronica. Ah, giusto, dimenticavo il pop.
Indefinibili. Ci ho pensato spesso, ma trovare un genere sotto cui classificarli o un gruppo a cui paragonarli è dura impresa.
E quindi mi accontento di sapere che le loro sonorità sono uniche.
“Widow City” è frutto degli eccezionali e virtuosi componimenti di Matthew (regista) e della voce coinvolgente ed eclettica di Eleanor (attrice): l’uno il complementare dell’altro, una perfetta intesa di sguardi e pensieri che convoglia in brani che sono dei piccoli capolavori. L’unica pecca (o forse la loro salvezza) è che ogni canzone vive per se stessa, ha il suo numero nella tracklist dettato dall’alto, ma non ci conduce da nessuna parte. La prima tappa del viaggio è “The Philadelphia Grand Jury” che fa un po’ da introduzione al disco: un basso suona, poi le note si fanno più dolci e melodiche, da lente a veloci, qualche chitarra, una batteria in loop che scandisce il tempo e la voce di Eleanor che alterna cantato a vere e proprie parti recitate. Più di sette minuti (gran parte strumentali) che ci lasciano assaporare di che pasta sono fatti i Fiery Furnaces. Tutte le altre tracce sono molto più brevi, passando per “Automatic Husband” che alterna momenti musicali (fragorosa batteria e chitarre distorte) a quelli solo recitati (con tastiera di sottofondo) quasi fosse un rituale magico, che sfocia quasi naturalmente nella successiva “Ex-Guru”, la qualche però tocca note più melodiche.
“Clear Signal From Cairo” è una strana canzone. Inizio quasi rock-progressive, poi sostituito dalla voce nevrotica di Eleanor, poi ritornano le distorsioni, poi di nuovo Eleanor, poi entrambe. Eclettici i Fiery Furnaces. Ma mentre siamo ancora frastornati da questi suoni, ecco che parte “My Egyptian Grammar” la più melodica dell’album, forse la più vicina al loro lavoro “EP”, che si concede un suono dolce tra tastiere e arpe. I suoni ritornano effettati e distorti, tra chitarre e bassi in “The Old Hag Is Sleeping” e “Japanese Sleepers”, fino a “Navy Nurse” e “Uncle Charlie”, anche queste con un sapore progressive di fondo.
“Restorative Beer” porta quiete apparente, un ritornello quasi pop (se paragonato al resto dell’album) che va in crescendo, per poi ridiscendere velocemente a suon di basso, che ha la meglio invece nella successiva “Wicker Whatnots”.
Poi arrivano le tre tracce finali “Cabaret Of The Seven Devils”, “Pricked In The Heart” e “Widow City”: sembra che i due fratellini siano tornati sulla retta via e che la redenzione sia vicina. Spariscono le distorsioni più elaborate e i suoni più cupi, le tastiere tornano a farsi sentire ad accompagnare il solito recitato di Eleanor (che qui ci ricorda molto Patti Smith).
Forse è uno dei lavori più complessi per i Fiery Furnaces, o per lo meno tra i più elaborati.
Da ascoltare con attenzione per capirne tutti i misteri.