“In Case Of Loss, Pelase Return To:” è stato un disco d’esordio da togliere il fiato, ha raccolto buone recensioni un po’ ovunque ma è rimasto nell’ombra penalizzato da una scarsa promozione. A parlare di questo ed altro abbiamo con noi Enrico Russo, piano, sintetizzatori ed altro nella complessa chimica dei Muzak.
Ciao Enrico, per prima cosa complimenti per il magnifico disco d’esordio. Una piccola domanda sul vostro nome: Muzak fu una rivista musicale nata negli anni “’70, una tra le prime, se non la prima, ad affrontare le tematiche musicali con un approccio critico. Come mai la scelta di questo nome per la band?
Proprio pochi giorni fa ho sfogliato i primi dieci numeri della collezione di mio padre. Molte recensioni erano scarabocchiate da me bambino”… “Muzak” era anche la trasmissione radiofonica di papà , bocciata dopo poche puntate perchè Gentle Giant, Zappa e Soft Machine risultarono indigesti alle antenne del paesino e dintorni.
Il Salento – e il Sud in senso più ampio – non è tra i posti più “agevoli” per fare musica, in particolare determinati generi. Da parte vostra che difficoltà avete incontrato dalla vostra comparsa sulla scena musicale nel 2000 fino all’esordio con “In Case Of Loss”…”? Ovviamente, se ne avete incontrate.
Non sono di questo parere. La nostra Terra è il posto ideale per pensare lucidamente ai problemi, perchè è lontana dagli epicentri, è fuori dall’occhio del ciclone. Qui siamo al riparo dai temporali pur avvertendo odore di pioggia. è l’ideale per chi vuole esprimersi “Sinceramente”, prescindendo dalle mode, dai canoni, dalle correnti. Oltre a quelle che abbiamo plasmato da soli (per smania di affrontarne qualcuna, forse) non abbiamo incontrato altre difficoltà .
Ho letto che all’inizio eravate visti nei pub come quelli che facevano “musicaccia”: dopo un album che ha raccolto ottime critiche praticamente ovunque, da internet alle riviste più o meno specializzate, è cambiato qualcosa per voi in ambito musicale?
Quelli che ai nostri primi concerti urlavano dal fondo: – smocondeuoooter! – oppure ““ rodausbluuuus! – e se ne andavano sconsolati dopo aver raccolto uno straccio di “Sweet Jane” suonata alla meno peggio, non leggono le riviste e le webzine. Perciò per molti versi, dopo “In Case Of Loss”…” non è cambiato un bel niente. D’altra parte non abbiamo mica inciso “Sgt Pepper’s”!
Il suono di “In Case Of Loss”…” è molto diverso da quello che si è abituati a sentire oggi in giro nel Salento (non mi riferisco solo alla onnipresente pizzica & affini, ma anche alla scena più underground, se così la si può definire); persistono comunque dei “legami” tra la vostra musica e la vostra terra?
Non credo esista una scena underground salentina (forse non esiste nemmeno una di superficie) e se esistesse non vorrei farne parte. Il legame con la nostra terra parte proprio da questo presupposto, il ghetto e le lobbie sono stati l’eredità dei secoli, non c’è da andarne fieri. L'”underground” non ha motivo di essere sul lido di Leuca, all’ombra degli ulivi o a Montesardo, il mio paesino. Bisogna inventarsi qualcosa di nuovo. Dovremmo smettere di vedere “scene” dove non ci sono, di scimmiottare modelli lontani che non possono rappresentarci.
Quale è stato l’impatto con lo studio di registrazione milanese? Come è stato lavorare con Paul de Jong (ndr violinista dei The Books) e Majirelle? Da dove è scaturita l’idea della collaborazione?
Al BIPS abbiamo solo masterizzato il disco. Il resto è stato fatto in aperta campagna con Fabio Magistrali nel basso Salento. La collaborazione con Paul de Jong è nata semplicemente quando lui ha gentilmente risposto alla nostra e-mail (non è da tutti!). Abbiamo lavorato a distanza in momenti separati e abbiamo condiviso il materiale via internet. Valentina invece è venuta giù da Terni per registrare il finale del disco. Giuseppe l’ha conosciuta ad un concerto e ha pensato alla sua voce per quella canzone.
Nel disco si fondono elementi spesso contrastanti: elettronica, archi, fiati, chitarre folk e virate psichedeliche, addirittura una banda che intona una marcia funebre! Una scelta coraggiosa quella di mescolare tanto materiale: avete avuto comunque sempre ben chiara la direzione nella quale si doveva muovere la vostra musica?
La nostra musica nasce da un processo perlopiù caotico e non preordinato. Si sgrezza man mano, ma certe volte il processo è durato anni! Penso che il risultato sia per tutti una prova tangibile di questo modo di fare la musica. Non ci piacciono i dischi monotoni, con quattro suoni tutti uguali, magari tirati fuori dallo stesso laptop. Piuttosto preferiamo correre il rischio di mettere più carne al fuoco e di farla bruciare tutta.
Quali sono quei gruppi che vi fanno esclamare: “Cavolo, questo è il suono che vorrei per la mia band.”?
Nessuno a parte la Banda di Racale o di Francavilla Fontana quando suonano la marcia “A Tubo”.
La moltitudine di strumenti usati, unita alla struttura inusuale dei pezzi, non rende più difficile l’esecuzione dal vivo di quanto inciso sul disco?
Dal vivo non ci possiamo permettere Paul de Jong al violoncello, nè Giuseppe De Marco al trombone, ma è molto divertente riarrangiare quei pezzi per quattro non-musicisti. Le cose difficili sono altre! Tenere sempre alto il volume per non sentire il fastidioso chiacchierare di quelli con la pinta in mano. Quello è difficile.
Che approccio avete nei confronti degli strumenti che usate, da quelli più classici all’elettronica e tutto ciò che si sente in “In Case Of Loss”…”?
Ne suoniamo molti e non ne sappiamo suonare nessuno. Questo è l’approccio. Può sembrare superficiale ma è l’unico modo di tenere a bada la razionalità e gli schemi e svincolare l’istinto. Non sopporto l’accademia, la spocchia dei jazzisti che si lavano i denti con Miles Davis, quelli che sgranchiscono le dita con Bach e Mozart.
La voce nei vostri pezzi non ha quasi mai un ruolo predominante, ed anzi sono frequenti episodi nei quali essa è del tutto assente.; eppure le parti cantate del disco mostrano un’ottima padronanza dello “strumento vocale”, che si adatta perfettamente alla musica. Da cosa scaturisce quindi la vostra scelta di non ricorrere frequentemente al cantato?
Non abbiamo seguito nessuna ricetta nel fare questo disco. Anche la dose delle parti cantate era “quanto basta”. Non c’è un motivo particolare, nè un criterio o una scelta di stile. Avevamo tot minuti strumentali e una manciata di canzoni e li abbiamo messi insieme, in fila, in modo che l’ascolto non fosse noioso. Forse questa era l’unica strategia.
Potrei sbagliarmi, ma nella maggior parte dei versi mi sembra che si scorga un senso di alienazione/impotenza. E’ così? Cosa vuole esprimere Muzak con le sue parole e la sua musica?
Oppure alienazione in-potenza. Muzak non ha chiare molte cose. Però lo ammette. Se ne frega di molte altre. In questo disco ci siamo occupati soprattutto di noi stessi. Con sincerità . Abbiamo pescato nei nostri diari, nei racconti dei nostri padri e nelle vicende della nostra terra.
Per il resto (o la maggior parte) dei casi sono parole che stanno bene insieme e nel contesto. Hanno l’efficacia di un bel suono di chitarra o di un rumore qualsiasi. Non importa cosa significano.
Una curiosità : i titoli delle canzoni sono tutti abbastanza singolari, impossibile non chiedervi qualcosa a proposito di essi:
Con i titoli lunghi abbiamo bilanciato il debito di parole nel disco! Sono riferimenti a letture, incontri casuali, vecchie storie di amici, velate polemiche. Spiegarli tutti potrebbe risultare anche noioso, e alcuni non si possono rivelare! Per fare un esempio, “The Holy Graal Is Buried Under the Football Ground” e il seguente “The Trojan Horse is Buried Under the Football Ground” si riferiscono ad un fatto di cronaca, ignorato e taciuto da molti: un intero sito archeologico appartenente alla civiltà Messapica portato alla luce qualche anno fa, fu prontamente riseppellito dal preticello di turno per fare spazio all’ennesimo impianto sportivo, all’oratorio e alla casa canonica. Amen.
“In Case Of Loss”…” è a mio avviso un esordio al fulmicotone; fosse uscito in un altro contesto geografico (e magari con una bella spinta promozionale), avrebbe potuto ottenere un riscontro enorme. Non vi sentite penalizzati da alcune circostanze?
L’etichetta che ha licenziato il disco non lo ha aiutato granchè. Questo è un dato di fatto. Molte soddisfazioni ce le siamo tolte da soli. Ottime recensioni, i complimenti della gente che viene ai concerti e soprattutto chi viene a dirti: “Ieri sono stato insieme al tuo disco per tutta la notte”. Questo è quello che mi fa felice.
Domandona finale: che cosa ha in serbo il futuro per Muzak?
La domanda più difficile te la sei tenuta per il finale! Muzak è figlio di quattro persone che vivono lontane. è stato sempre difficile fare progetti. Non ne abbiamo mai fatti a lunga scadenza.
Nel frattempo si potrebbe concludere gli studi e trovare un buon lavoro. Non ho più la faccia per chiedere alla mamma di comprarmi un Moog.
Un saluto ai Muzak e ad Enrico per la sua disponibilità . E voi che leggete correte ad acquistare “In Case Of Loss”…”, chè ne vale la pena!
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