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Una delle protagoniste di Across the Universe si chiama Prudence. Ad un certo punto del film, in modo del tutto immotivato, si chiude in uno sgabuzzino dell’appartamento-comune che i personaggi dividono nel Village, e per farla uscire tutti iniziano a cantare “Dear Prudence, won’t you come out to play”…” La macchina da presa gira su di loro a 360 gradi, le pareti spariscono e vengono sostituite da splendidi cieli con qualche macchia di nuvole, fino a che la pellicola non prende colori psichedelici, arrivando al negativo originale. E’ questa una sequenza indicativa di tutta l’operazione che sta dietro ad Across the Universe, che lontano dall’essere un film in qualche modo assimilabile ai Beatles, ne sfrutta viceversa le canzoni, per altro a volte riarrangiate in modo pessimo, come semplice traccia narrativa di un film che esprime una sensibile banalità nel contenuto, e una visualità riciclata nella messa in scena, che dietro l’apparente grandiosità di alcune coreografie nasconde invece il vuoto che le ha originate. La sensazione è che spesso si inverta colpevolmente il ruolo intreccio/musica: che non sia più il primo a rendere necessario l’altra, quanto piuttosto il contrario. Alcuni momenti del film sono completamente superflui, solo una scusa per far esibire Bono Vox in una mediocre versione di “I Am the Walrus”, o per allestire un’onirica sequenza circense nel caso di “For the Benefit of Mr. Kite”. Persino la provenienza del protagonista “Jude” (certamente, in un suo momento di particolare sconforto, tutti gli canteranno “Hey Jude, don’t make it bad”…”), originario di Liverpool, sembra nient’altro che un modo forzato per incastrare un riferimento ai fab four. Across the Universe è un film che cova molte ambizioni, a differenza della spensieratezza connaturata del musical, persino quella di dire qualcosa di originale sul Vietnam, e di riflesso sui venti pacifisti contemporanei, dietro un intreccio che è una storia d’amore troppo condizionata dall’esigenza di voler essere fuori dalle righe. I campi di fragole di John Lennon diventano un quadro pop che il protagonista dedica alle vittime di guerra (il loro succo, spalmato su una superficie bianca, diventa simile a sangue, la loro forma diventa il cuore straziato dei morti), il celebre concerto che i Beatles tennero sul tetto degli studi della Emi diventa il pretesto per una serenata collettiva sulle note di “All You Need Is Love”. Tuttavia, tutto sembra falso e per di più già visto: sia il ribellismo giovanile, con l’amico di Jude che lascia Princeton come faceva Holden Caulfield, sia la morale sul movimento del 1968 (aspettatevi Revolution). I protagonisti parlano/cantano dall’inizio alla fine, mescolando i dialoghi a versi di brani famosi, come sperimentato con successo in Moulin Rouge, e spesso impediscono quella separazione tra diegesi e numeri musicali che è la vera essenza del musical, con quella imposizione della sospensione dell’incredulità che fa la differenza tra un film di genere riuscito e uno fallito. |
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