A differenza del precedente “The Plural of the Choir”, datato 2005, “Oh Dear!”, terzo lavoro dei Settlefish nasce stavolta senza l’ala protettiva della Deep Elm, che direttamente d’oltreoceano, fece della band bolognese qualcosa di più di una semplice ma formidabile eccezione nella scena indie italiana.
Non solo per il non trascurabile fatto di vederli calcare palchi nel mezzo mondo della musica che conta, ma anche e soprattutto per l’impossibile e orgogliosa sorpresa di scoprire che la musica italiana, seppur di fattezze e ambizioni fortemente internazionali, è a volte meglio di quella d’oltre confine.
Ed è ripartendo da Bologna che i Settlefish ripartono dopo due anni, carichi di tanti e tanti chilometri macinati, vissuti, elaborati e trasformati in esperienze e sogni che riempiono la testa dando simbolicamente il via a questo “Oh Dear!”, che altro non è che il primo album veramente pop dei Settlefish.
Perchè pop è la spontaneità con cui i Settlefish suonano le loro canzoni, è la leggerezza con la quale le trasformano in nitidi ricordi d’infanzia e adolescenza, di vacanze al mare, di prime sigarette, di primi amori.
Pop è la trasgressione dei Settlefish, a proprio agio nel sentirsi cucito addosso questo “Oh Dear”, inaspettata e notevole frustata, proprio mentre un po’ per malafede, un po’ per abitudine, ci si aspettava un altro assalto di collaudato e sicuro emo-core, di chitarre massacrate e di corde vocali che bruciano.
Pop è il piano elettrico di “Summer Droops”, così Death Cab For Cutie come i Settlefish non sono mai stati, con quella melodia instancabile che non si leva dalla testa neanche con le bombardate chitarristiche del ritornello.
Pop è Graham Coxon che scende per un attimo a Bologna, aleggia su “The Boy And The Light” e stampa un metro quadro di sorriso sulla faccia di un Jonathan Clancy, rilassato, sereno, eclettico, sempre più perfetto, addirittura sorprendente nei 40 secondi di “Interlude 4”.
Pop sono “In The Neighborhood” e “This City”, veri e propri inni, con la prima che si diverte a disintegrare schemi e pratiche musicali per poi essere semplicemente una canzone, e con la seconda che riesce nel difficile intento di procedere ad alta velocità senza accusarne il peso emotivo.
Ed è forse qui che risiede la forza dei Settlefish e di “Oh Dear”, nel saper scostare e mettere da parte quella pesantezza emotiva e sonora, quella furia (in)controllata, riuscendo a condensare energia e leggerezza, malinconia e vitalità , in un sorprendente disco di canzoni vere suonate, per una volta, da persone vere.
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