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Tutti quei ritmi realizzati su computer sono noiosi. Keith Richards (Se uno nasce storto non muore dritto.) Lo davano per morto, ancora una volta. Sommerso da campionamenti, robe elettroniche, suoni sintetici come pasticche, unze patunze che vanno per la maggiore nella scatolina tutta fili e transistor. Ed i defunti si sa, non si muovono di certo; oh be’, si, forse qualche eccezione alla regola c’è stata, ma quella è tutta un’altra storia. Ancora una volta chi c’è, batte il colpo. Il rock non morirà mai ed è bene che ce lo schiaffiamo in testa. Rassegnamoci. O rallegriamocene, a seconda dei punti di visti. Come un wrestler steso al tappeto, stremato e sormontato da un suo compare calzamagliato, con un singhiozzo di spalla residuo grida che è vivo e che la partita non è per niente chiusa. Charles Thompson aka Frank Black aka Black Francis (-breve parentesi: “Frank ma come diavolo ti dobbiamo chiamare?- “Ora sono Black Francis“- “E da dove spunta fuori ‘sto nome?”- “Vent’anni fa mio padre mi disse: Fatti chiamare Black Francis– e da allora, senza chiedergliene il motivo, mi faccio chiamare così. Punto.”) rovescia la sua ira in un album splendente di aggressività rock’n’roll. Si badi bene: non ho detto solo rock. C’è di mezzo anche il fratello e compare di vecchia data ‘And Roll’. Perchè non è solo una questione di aggressività elettrica con amplificatori in gran spolvero, ma è tutta una situazione di corpi febbricitanti passati da parte a parte da una scossa elettrica a 2000 volts. Sembra trascorso un secolo dall’ultimo afflato dei Pixies, ma il bitorzoluto Frank sembra fregarsene alla grande, ligio com’è all’unica legge osservata nel rock’n’roll: sono qui ora, ora sudo e respiro, ora bisogna scatenare le convulsioni telluriche e poi si vedrà , quel che sarà , sarà . Un basso sfibrato e percussivo, una chitarra che gira veloce in tondo, una batteria che segue frenetica dietro le melodie secche tirate fuori dal geniaccio malato del serpente di Boston: ricetta semplice eppure tante volte persa in mezzo alla intellettualoide ricerca di un suono nuovo. Ed è pura goduria sentire Black sbraitare sguaiato, incalzare inferocito, fermarsi a fumare una sigaretta con Lou Reed (“Lolita”), urlare follemente a destra e a sinistra, fare scorribande con Kim Gordon e gli altri giovani sonici del tempo che fu (“Tight Black Rubber” e più di un ricordo viene a galla). In mezzo tante piccole gemme, autentici gioiellini che sarebbe davvero un peccato disperdere come sabbia al mare. Inni eterni da dancefloor indie-rock (“You Can’t Break A Heart And Have It” su cui si potrebbe scrivere un capitolo a parte: pezzi di Jerry Lee Lewis passati sotto mescalina in un viaggio verso Nashville con Hunter S. Thompson), fini intagli nostalgici mentre si guarda il mondo sfracellarsi al suolo e sentirsi come mai prima sperando nello schianto fatale (“Disotheque 36”). Quel che conta alla fine è la velocità a cui schizza questo disco di grandissima classe, che solo un vecchio leone come Black poteva tirare fuori dal cilindro. Oggi siamo qui, ora è il giorno che si fa. Domani si vedrà , domani c’è un’altro mondo da incendiare. Chapeau. “FRANK BLACK – FAST MAN RAIDER MAN” review on INDIE FOR BUNNIES |
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