Dopo due dischi, Grizzly Bear fa uscire un EP molto speciale, intanto perchè con 10 tracce e mezza è un EP bello cicciottello, poi perchè invece di contenere le solite versioni alternative (magari quelle scartate dai precedenti lavori) qui troviamo brani nuovi insieme a brani vecchi ma ripensati e risuonati in modo totalmente differente, poi un remix assai breve e molto freaky, cover di antiche glorie eseguite da Grizzly Bear (“He Hit Me”, una ballata scritta da Carole King e cantata da Jodie Miller nel 1965), e cover di brani di Grizzly Bear eseguite da musicisti scelti non certo per affinità  di sound (il sound dei Grizzly Bear è praticamente impossibile da etichettare, ma quello di CSS, Band of Horses e Atlas Sound ne è certo lontano qualche anno-luce…) ma perchè amici (ecco qui il titolo) con cui si è condivisa qualche strada. Un viaggio confortevole nelle cose amate e con persone amate.
D’altronde è un po’ anche la storia del gruppo: dai nastri fatti a casa di Edward Droste alla collaborazione fondamentale con Christopher Bear che ha portato al primo disco, “Horn of Plenty”, il passaparola nell’underground, l’ingresso di altre due anime gemelle, Chris Taylor e Daniel Rossen, innumerevoli concerti, il secondo disco, “Yellow House”: tutto frutto di strade fatte insieme.

Insomma, un EP che è a tutti gli effetti un disco “nuovo”, quasi una dichiarazione di intenti da parte dei quattro di Brooklyn, un riepilogo di quanto fatto finora e uno sguardo alle strade che si parano innanzi.
E il fatto che Grizzly Bear abbia raggiunto una splendida maturità  artistica è testimoniato dal fatto che le strade che abbiamo davanti sono davvero tante: alla base c’è la forma-canzone, ma su questa si innesta un sound che più eclettico non si può: andiamo dal freak folk (sì, ci sono pure banjos, cose tradizionali, ecc.) ai suoni complessi creati con strati su strati di oggetti e strumenti acustici ed elettronici, dall’hi-fi di orchestrazioni con violini e ottoni al lo-fi di rumori di cose che si frantumano come le storie di amore e di relazioni raccontate in testi talvolta brevi e fulminanti.
Tanta è la carne al fuoco che nel corso della carriera i ragazzi sono stati paragonati agli artisti più disparati (e a volta improbabili…): Syd Barret, Brian Eno, Nick Drake… Ma Grizzly Bear non ha paura di essere se stesso, e allo stesso tempo di reinventarsi con grande coraggio: andate a sentire le nuove versioni di “Shift” o di “Little Brother”.

Così come davvero (re)invenzioni sono le tre cover: CSS trasforma “Knife” in un surf elettrico con suoni e drum machine molto eighties); “Atlas Sound” (aka Bradford Cox dei Deerhunter) fa lo stessissimo pezzo, ma i suoni, molto stranianti, fanno molto… beh, proprio Grizzly Bear! Band of Horses si cimenta con “Plans”, cui dà  un deciso sapore country & western à  la “O Brother Where Art Thou”, che viene però irruvidito alla fine da una chitarra distorta e flangerata…
Bellissimo il brano di apertura: una magnifica versione corale di “Alligator” da “Horn of Plenty”, con in evidenza l’inconfondibile voce di Zach Condon (aka Beirut), aperta da una flauto quasi indiano, sostenuta poi da un potente muro di suono e conclusa da un incredibile passaggio di ottoni stile hollywood e grappoli liquidi di note di pianoforte…

Ah, dimenticavo, la mezza traccia che menzionavo all’inizio è un breve brano attaccato dopo una pausa di quasi un minuto all’ultimo pezzo (“Dirt Blue Sea”, una ballata tradizionale acustica e intimista proveniente da “Horn of Plenty”): una frenesia a metà  tra flamenco elettrico e “Misirlou”, il tema celeberrimo di Pulp Fiction…

Sono proprio curioso di vedere dove andranno a parare nel prossimo disco!