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Fossero vissuti un secolo e mezzo fa li avremmo trovati come mozzi su di un brigantino che dava la caccia alle balene dalle parti di Nantucket. Vita dura quella, barbe indurite dal freddo, occhi luccicanti nel miraggio di un pasto caldo, pelle riarsa dal sole, anime bruciate in congedo dalla civiltà terrestre. Il mozzo Adam Stephens avrebbe covato una sana rabbia giovane in quel suo cuore gonfio di musica e sicuramente avrebbe fatto amicizia con Tyson Vogel , affascinato dal modo elgentemente rude di picchiare qualsivoglia cosa gli fosse capitata sotto mano. Centocinquant’anni dopo ci troviamo invece a dover fare i conti con una delle più elettrizzanti band dello scenario folk americano innanzitutto e mondiale di conseguenza. Ascoltare un disco del duo di San Francisco ha sempre un che di sacrale, laddove ogni giro di chitarra è l’invito in un mondo sonoro a parte, diverso da tutto quello che di solito si è abituati a sentire. Se nei precedenti album c’era un elemento animalesco a scatenare la voce rabbiosa di Adam, adesso sembra che vi sia una apparente calma di fondo, con un più spiccato gusto verso la melodia ed il ritornello. Ma che gli avranno fatto? La felicità e la sicurezza fanno brutti scherzi, non c’è che dire. No, perchè, guardate che il discorso è tutto qua; Celine diceva che l’arte è una danza con la morte. L’appagamento prosciuga il sangue dall’anima. Eppure la qualità di questo disco è buona, la corde vocali bruciate dalla benzina di Adam ruggiscono come un motore a gasolio su una Skoda dell’85, suono burbero e deciso, pieno e scoppiettante pronto a riempire e saturare l’aria, lasciando ben poco spazio a smancerie e sospiri. Quell’attitudine da campagnoli elettrificati non li ha abbandonati, il loro è ancora un camminare per immensi campi di grano scatenando e sfidando gli elementi della natura. Il tappeto sul quale sciogliere schitarrate ed urla è al solito preparato dall’ottimo frullare veemente di Vogel, un uragano di precisione e potenza, un pugile mentre si esibisce nella nobile arte, tra sudore e cazzotti, tra movimenti agili e forza chiusa in gesti iconici. Senza contare che i Two Gallants sono uno dei pochi gruppi ad essere riusciti ad elevare l’armonica a bocca a strumento di poesia (Bennato a parte, sia inteso) e a renderlo così visceralmente fratello di una chitarra elettrica. Taglia lame sottili il piccolo ferro bucherellato, e gioca a rincorrersi con le sei corde infuocate dall’ardore appassionato di un turbine che mescola folk, blues, canti abbandonati sul Delta del Mississipi, fantasmi e compagni di viaggio, chilometri e facce diverse ma in attesa di un unico fragore. Però quando metti in gioco te stesso con la genuinità dei Due Cavalieri è difficile non alimentare il culto. Nell’attesa che qualcuno righi l’auto nuova ad uno dei due facendoli incavolare come bisonti inferociti, ci rilassiamo ascoltando la stupenda “My Baby’s Gone” e le sue otto sorelle. I Two Gallants sono la mia techno. |
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