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Cloverfield appartiene a quella categoria di film-fenomeno: se ne parla infatti da giugno, quando un inquietante e suggestivo teaser mostrava la testa della Statua della libertà rotolare, dopo aver rimbalzato tra i grattacieli, in una strada del Village, in mezzo ad una folla di new yorkers in preda al panico. J. J. Abrams, produttore già affermato, ha fatto di questo film un successo ancora prima che uscisse, spendendo molti dei 20 milioni di budget in viral marketing, una pratica nata negli anni sessanta con i film di Roger Corman ed esasperata dall’epoca della rete: false anticipazioni, siti internet fantasma che rilanciavano scoop e foto che mostravano le improbabili fattezze del mostro che avrebbe messo a ferro e fuoco Manhattan. Una curiosità spasmodica che ha pagato uno strepitoso trionfo al primo week-end. Una festa della upper class di New York interrotta da scosse di terremoto ed esplosioni improvvise: scene da 11 settembre, con il simbolo dell’America che viene brutalmente spazzato via. Un monster-movie girato con una telecamera, come se fosse una cosa vera, un Godzilla rimasticato con riprese da telegiornale, affinchè la gente sappia, una volta che il video verrà messo su YouTube, cosa è successo quel giorno. Di più, Abrams (come il LOST, il suo serial pluripremiato) rovescia del tutto lo stereotipo del monster-movie: infatti, non si sa che origine abbia la creatura spuntata fuori dall’Oceano Atlantico, non si sa che scopo abbia; davanti a lui, l’umanità non si compatta per far fronte alla catastrofe, ma si disunisce. Cloverfield non è la cronaca videoamatoriale di una fuga, ma paradossalmente è il resoconto di un salvataggio impossibile, di un nucleo di personaggi che va dritto incontro alla minaccia per salvare un’amica e un’amante. Abilmente, il produttore (parlare di Matt Reeves è del tutto superfluo, vista la natura del film) non rifiuta la logica del kolossal, si arrangia come può nella descrizione del mostro (che partorisce spontaneamente anche dei repellenti aracnidi), e in più aggiunge dei tocchi straordinariamente desolanti nel filmato che fa da film. Il nastro sovraimpresso concede dei brandelli di una pacifica giornata a Coney Island tra il protagonista Rob e la sua fidanzata: un’oasi di banale quotidianità che sembra lontana anni luce dall’orrore di una minaccia improvvisa e imbattibile, uno squarcio della nostro vissuto che appartiene già ad un’altra epoca. E’ troppo tardi per riscoprire i sentimenti, troppo tardi per tutto: Abrams rovescia la logica dell’ultimo sopravvissuto, e abbraccia la teoria di un cupo nichilismo. La visione, che balla costantemente ed adotta dei punti di vista eccentrici e costantemente ribaltati, può causare pesanti cefalee: alla grande verosimiglianza dell’incubo, sopraggiunge un concreto malessere fisico che aumenta il disagio. |
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