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Lo scioglimento dei cLOUDDEAD è stato, per chi scrive, uno dei momenti più sconsolanti da quando si è appassionato alla musica. La perdita di un collettivo che in pochissimi album aveva saputo tracciare una strada nuovissima e pericolosa di destrutturazione al formato canzone, non soltanto in campo hip-hop come poteva apparire in un primo momento. Chiaro che “Ten” era un apice difficilmente ripetibile e consegnava al trio (già assai instabile) una pesante nomea di gruppo, oserei dire, cult. è da tutti questi presupposti che nascono le carriere soliste di Doseone, Odd Nosdam e Why?. Proprio di quest’ultimo ci troviamo a parlare ora, forse proprio l’unico ad aver coltivato quell’intento perturbante e spiazzante (anche più di Doseone ed i suoi Subtle) in ogni sua mossa. Lo troviamo ora con questo terzo disco sempre più concentrato e convincente nella sua parte di indefinibile cantore di un qualcosa, tipicamente americano, ma altrettanto indefinibile che sta tra deserti e pickup pieni di qualcosa che forse non è legale ma sicuramente sballa, locali fumosi e discoteche di terz’ordine, ragazzine pronte a vendersi per qualche bicchiere e falsi funerali. Why? è lì, che non sai se è serio o ti sta prendendo in giro. Quando parte “The Vowels Pt.2” ti spiazza tutta quella malinconia, quella chitarra effettata e lui, soprattutto lui che sembra troppo figo così convinto nel suo melodico sputarti addosso un flusso di coscienza sempre in bilico tra arroganza e farsa. “Good Friday” è la più convincente ipotesi di cantautorato (post)contemporaneo, certo ricorda i cLOUDDEAD ma è forse ancora più intensa e addirittura poetica nel suo emaciato ed apocalittico svolgersi (con quella grandiosa e lancinante chitarra sul finale). “These New Presidents” ricorda in maniera sospetta i The Good, The Bad & The Queen, ma è troppo divertente per essere vera. Ci rendiamo conto quando scatta “The Hollows” di quanto fosse necessario che i cLOUDDEAD si sciogliessero, come altrimenti avremmo potuto ascoltare questo speciale rock soul, intenso come solo gli Afghan Whigs riesco a ricordare. Ogni canzone ci fa capire come Why? (lui, ma anche tutti i comprimari che lo accompagnano) sia una rara possibilità di rimanere artisti in un mondo teso a fagocitarti: nascondersi dietro alle proprie composizioni sempre diverse, mandare queste allo sbaraglio e vedere cosa succede così da raccontarlo la volta dopo. Per esempio “Fatalist Palmistry” la diresti anche fuori luogo, a metà tra Sparklehorse e schitarrate sixties, ma scorgi all’improvviso il nostro dietro un basso che cresce e capisci che Why? è lì che ti guarda e studia come reagisci. Questo “Alopecia” funziona così: un attimo prima si butta su scansioni hip-hop marziali e distorte (“The Fall Of Mr. Fifths”) e l’attimo dopo lo trovi a sbronzarsi in una stazione di servizio insieme al Ry Cooder più polveroso e roots (“Brook & Waxing”), lo credi a crogiolarsi nei pattern romantici e disincantati di “A Sky For Shoeing” ed invece strimpella la chitarra sulla riva di un fiumiciattolo con un filo d’erba tra le labbra (“Simeon’s Dilemma”). La massima destrutturazione è raggiunta, “Alopecia” è tutto ed è niente: è un enorme frullatore che nasconde e dissimula, mischia e raggruppa, spezzetta e ricompone. Il risultato è un amalgama inaspettato e dalle mille facce. Mille molecole di folk, altre mille di hip-hop e così via… Tutto è nuovo. Questa sua irraggiungibile diversità è simbolo stesso della sua contemporaneità ; trovo dunque “Alopecia” il disco più giusto per questi nostro strani giorni, nulla avrebbe suonato meglio. A parte le stronzate, venderei tutta la mia droga per averlo fatto io un disco così. |
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