…tu lascia pure che i miei occhi si attardino sul mondo e sulle luci
Il cielo ha rispetto di Cesare Basile. Nuvole spesse, fendenti di vento ghiacciato, sole umiliato in un crescendo di nostalgia invernale, sferzate di pioggia improvvisa incorniciano l’uscita del disco del più oscuro e sfuggente cantautore italiano. Storie imbevute di luce sacrale, tensioni a la Massimo Volume tra un desiderio di carne insopprimibile che lotta feroce con gli spunti di anime appesantite vogliose di purezza. Basile costruisce una cattedrale sonora imperniata sul suo salamodiare lento ed implacabile, diventa condottiero di trame gotiche perchè spogliate di inutili orpelli e giunge all’essenza.
Ad essere sinceri, sono piacevolmente stupito da questo “Storia Di Caino”, laddove mi aspettavo un lavoro ostico, appesantito da troppi vapori, rimango invece tramortito da canzoni splendide, semplici, ossequiose a certo blues ubriaco intriso di folk americano, atmosfere che avrebbero fatto piacere al Johnny Cash crepuscolare degli ultimi tempi. E poi una ricerca lessicale studiata, meditata, affinchè ogni parola sia la prescelta di una lunga e sofferta selezione, con un malcelato dolore nel momento del distacco, sparano l’album nell’Empireo della reverenza assoluta.
Accompagnato dal fido John Parish alla produzione, lo schivo Cesare, due profonde occhiaie incise sul viso come le stigmate di chi passa le notti tra profonde sorsate di cognac e la ricerca elettrica della fatale ispirazione, dà alle stampe un disco fatto di tremori e lunghi sguardi, peccati e redenzioni, ritmi al passeggio (“A Tutte Ho chiesto Meraviglia”) ed eleganti tuoni fragorosi (“Storia Di Caino”). Ballate languide oscillano sospese nella notte svelando il lato della tregua alla tragedia del massacro, chitarre asciugate e polverose si aggrappano al mistero della voce e della fede. La fustigazione pubblica di Milano sarebbe tanto piaciuta a Fabrizio De Andrè che da qualche parte benedice e ghigna ombroso ascoltando le storie di Caino.
Splendida la superba collaborazione con Robert Fisher, il quale presta la sua indolenza e la sua voce insonne alla danza spettrale di “What Else Have I To Spur Me In To Love”. Quest’album è un inno alla notte, alla luce sbiadita dei lampioni ingobbiti, all’onda vuota che si propaga nei cieli di velluto, alle risposte insolute degli occhi che non riescono a vedere, ai sudori della terra scura, ai petti che si gonfiano d’ansia nel volo a precipizio della solitudine feroce, agli sgabelli sui tavoli dei club quand’è tardi per gli altri ma ancora presto per te, per te che sei infinito come la melodia giusta che risuona nella mente dei pazzi.
Prima che il sole si riveli, prima che sia tutto chiaro, c’è ancora la gioia del sangue inquieto. Ed è tutta qui dentro.
Photo credit: Andrea Nicotra