Poco più che silenziosamente, alle spalle di altre promesse dell’indie made in Italy più o meno tramutatesi in felici realtà , gli Yuppie Flu arrivano, anche loro, al famigerato decennio di carriera.
“Fragile Forest”, al di là di ogni ripetitivo e stressante questionare sulla scelta Radioheadiana di distribuire il tutto via web con l’accattivante formula dell’offerta libera, è ancora una volta una valida dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno, di come gli Yuppie Flu, da promessi Pavement di casa nostra, nel silenzio di 6 lavori sempre diversi e convincenti, siano in realtà un’entità eclettica e rappresentativa di una scena, quella indiependente italiana, che paradossalmente, è sempre sembrata riporre in loro molta meno attenzione che all’estero.
Se la copertina del precedente “Toast Master” non sfigurava umile al fianco di consumati e loquaci poster degli Strokes, “Fragile Forest” riprende la ricercata malinconia di “Days Before The Day”, mettendo però da parte i Notwist e quell’indietronica che lo resero, a onor della mia personalissima opinione, uno dei dischi italiani meglio riusciti dal 2000 ad oggi.
“Fragile Forest” si veste d’autunno, ma l’estate è ancora lì nella testa con i suoi ultimi scampoli di sole e spensieratezza.
Se “Patient One” apre il disco con un delicato dialogo lo-fi tra chitarre acustiche e voce, la successiva “title-track” scombussola tutto: dei My Bloody Valentine in vacanza le danno il via epici come solo loro possono essere, poi gli Yuppie Flu riprendono le redini del gioco e creano un gioiello di dream pop, o più semplicemente pop, che è sicuramente il pezzo più riuscito dell’ensemble.
à‰ l’estate che ricordiamo e che adesso aspettiamo, più avanti confermata dall’orientaleggiante “Eyes”, più in là smentita o solo rinviata da “The Night And I” o dalla conclusiva “Blue Plot”, dolorosamente incastonata in un riverberoso pianoforte dritto dritto su qualche arteria.
In mezzo, “Summer Afternoon” sembra riproporre i Giardini di Mirò in chiave Yuppie Flu, giusto giusto per portare a termine col cambio automatico un riuscito esercizio stilistico più che un convincente e necessario episodio.
Stesso discorso per “Yellow Hills”, troppo sentitamente Flaming Lips.
Poco importa, in fondo.
“Fragile Forest” sa scuotere i nervi, sa scombussolare la pelle, sa scrivere dei nostri cuori una geografia nuova, che solo l’estate, climaticamente schierata che sia, può comprendere ed esplorare.
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