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In Inghilterra ultimamente i Wild Beasts sono spesso dentro ogni rivista di musica. I Wild Beasts non hanno un genere definito e per loro stessa ammissione a loro non importa “di indossare pantaloni larghi, i pantaloni stretti, appartenere a una scena, a un genere o a un luogo”. Ok mi sta bene. Anzi benissimo. E dirò di più, ci riescono benissimo ad essere inafferrabili, indefinibili: tropicali, floreali, anni ottanta, pop ma neanche troppo. Il disco è un disastro però. Una vera catastrofe non annunciata. Una sorta di esperimento mascherato da valido pop, suonato da validi musicisti. Niente di più falso. In genere non mi accanisco contro i dischi mal suonati, mal prodotti e dati in pasto alle persone che spendono i loro soldi per acquistare ciò che gli viene pubblicizzato, preferisco non recensirli e finisce la storia, ma stavolta non posso fare a meno di nuotare contro corrente. Contro i vari NME e compagnia bella. I Wild Beasts vogliono fare qualcosa molto al di sopra delle loro possibilità , proprio in termini musicali. Vogliono “affrontare un (non) genere” ma ne escono sconfitti: poi, a priori, non si può non provare un minimo se non di fastidio almeno un po’ di noia per un frontman che canta il 70% di un brano in falsetto, manco fosse Justin Hawkins (The Darkness). Queste cose le poteva fare Freddie Mercury, le potrebbe accennare con discreto successo un Matt Bellamy (e non parlo solo di voce ma proprio di stile e idee di composizione) non il cantante dei Wild Beasts. Le chitarre non seguono una struttura-canzone e rimangono sospese a consegnare note di colore ad atmosfere che cambiano continuamente. Unico brano che forse si salva se ascoltato un paio di volte è “The Devil’s Crayon”, terza traccia di un album pompato fin troppo. Sembra di assistere al peggiore concerto dei Talking Heads mentre provano a modificare a loro piacimento il repertorio dei Guillemots. |
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