Eppure nei mille frammenti della deflagrazione che cadono dinanzi ai miei occhi vedo le ossa bianche del mondo, malate asticelle d’avorio ingrigito. Era dai tempi in cui le notti erano il diverso che ci stringeva mentre giocavamo a dadi con gli occhi sbagliati che una cappa di silenzio fragoroso non irrompeva come una bestia drogata nei nostri cuori. Chi ha perso la parola deve urlare due volte più forte, prosciuga se stesso mentre affoga nel sudore caldo di un campo di papaveri.

Col post-rock va a finire sempre così, si immola il pensiero alla tragedia imminente rallentando il tempo descrittivo; diventiamo degli Achab dinanzi al mare bluastro e minaccioso, consumiamo i nostri respiri pesanti nella contemplazione irrefrenabile della catastrofe biblica. Nell’occhio del ciclone c’è però una calma paradisiaca, un altro universo indifferente, un posto assai tranquillo dove secondo me i My Education si ritrovano per scrivere bella musica. Il Texas da oggi non è più solo la patria delle Esplosioni Nel Cielo, ma sa essere benevolo anche con questo gruppo niente affatto male, dotato di buone doti compositive e di un pathos sgargiante.

Brian Purington attraversa le dorsali appennininche dell’elettricità rinvigorita della sua chitarra attraverso sinistri movimenti di pedal steel sorretti da crescendo acustici dove spicca lo splendido violoncello di James Alexander, virtuoso musicista disegnatore di trame che farebbero invidia al più pop dei compositori odierni. Direttamente dagli Stars Of The Lid, Kirk Laktas pennella dal canto suo paesaggi autunnali tinti di rassicuranti decadenze, correndo per secchi terreni post-nucleari illuminati da un cielo azzurro e freddo. “Arch” e “Aria” trascinano il cuore oltre l’ostacolo, facendo tintinnare i pezzi arrugginiti del nostro cuore che, per poco, si smuove dal suo torpore congelato.

Molto vicini per malinconica estetica ai Mono, i My Education si pongono nel mezzo del cammin tra Mogwai e Balmorhea, sanno essere inquietanti vortici emozionali che riscaldano vene infebbrate, per poi planare con la regalità dell’aquila su vasti laghi placidamente acquattati nel loro speranzoso silenzio liquido.
Al loro secondo disco i 6 texani possono dirsi dunque soddisfatti, non solo per l’eccellente qualità di “Bad Vibrations”, ma anche per le notevoli collaborazioni e remixes di loro brani ad opera, tra gli altri, di Dalek, Red Sparrowes, Kinski e Teith (band i Travor dei Pelican).

L’ennesima conferma che si può dire tutto anche senza dire niente e che c’è ancora tanto da musicare in questi spazi sconfinati che del rock hanno l’impeto furioso senza, però, nessuna voglia di distruggere alcunchè. Succubi del tempo e del vento.

Tu chiamale se vuoi emozioni.

Photo Credit: bandcamp