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Dopo la morte di Thompson, il capo di una squadra di artificieri, il suo posto viene preso da William James, appena tornato dall’Afghanistan. Mentre i suoi due compagni Eldridge e Sanborn cercano di arrivare al vicino congedo sani e salvi, il nuovo arrivato si distingue per l’assoluta noncuranza delle norme di sicurezza, nel disinnescare gli ordigni. Il rientro a casa, per uno come lui, sembra quasi una condanna.

Alla ricerca di una forma di una nuova forma per parlare di una nuova guerra ““ dopo “Redacted” di Brian De Palma, pastiche di linguaggi possibili per l’Iraq ““ arriva sua maestà  Kathryn Bigelow.
Un’entrata in grande stile, per una delle poche donne dell’action: “The Hurt Locker” infatti scende direttamente nel campo, e prende di petto la questione sin dal primo fotogramma, senza nemmeno tentare di cercare una struttura d’appoggio, come se l’urgenza di raccontare, di essere dentro la guerra, fosse una sua necessità  irrinunciabile.
Il film della Bigelow si potrebbe definire una non-storia, o quanto meno un film che trova nella ripetitività , nel bisogno ossessivo di ripetere sempre la stessa azione, di vivere sempre lo stesso pericolo, la sua unica ragione d’esistenza: in questo senso, si immedesima completamente con il suo protagonista, che come dimostra la citazione iniziale (forse sin troppo esplicita) ha bisogno dell’adrenalina come una droga, come qualcosa di cui non può più fare a meno.
La Bigelow non ha bisogno di dispensare nè sociologia, nè etica, nè politically correct: essendo un film di soldati, un film che vuole essere tra i soldati, presenta il nemico per quello che è. Gli iracheni sono subdoli, crudeli, pieni di spine. Sono tutti dei potenziali pericoli, ogni loro gesto non previsto potrebbe essere l’ultimo: così li vedono i soldati in Iraq, così li vede la Bigelow, in una solidarietà  che non cerca di fare proseliti, nè si vergogna della sua onestà  o delle conseguenze di questo sguardo unilaterale, ma cerca piuttosto di essere aderente al dramma dei suoi personaggi.

Eppure, manca anche quel senso di virilità  che si potrebbe rintracciare nella visione della guerra di Steven Spielberg o Clint Eastwood, tra i primi ad affrontare la guerra dal basso, tra le trincee, tra il fango, la sabbia, il sangue, le ferite: non ci sono i volti segnati, gli sguardi duri, le emozioni racchiuse in un primo piano.
Così la regista decide di non affrontare il merito della questione – la legittimità  o meno della presenza americana in Iraq – ma piuttosto le conseguenze dell’esperienza della guerra su un essere umano, come un’esperienza atroce non lasci alcuna traccia d’empatia.
William James è un artificiere, uno che dopo aver disinnescato quasi mille ordigni, dopo essere stato messo di fronte alla possibilità  di essere polverizzato da una bomba, ormai affronta il pericolo come se stesse facendo la revisione ad un’automobile. Un lavoro come un altro, così come la morte è una cosa su cui non c’è nemmeno da stare a pensare, un banale accidente (la splendida sequenza in cui tutta la vita di un soldato caduto finisce in uno scatole uguale ad altri cento, da rimandare a casa) da mettere in conto.
Così, anche la Bigelow adotta un punto di vista casuale, non-drammatico, si libera in modo voluto delle sue facce/star, di tutti i potenziali veicoli di immedesimazione (Guy Pierce e Ralph Fiennes), si cimenta con una storia che protende verso un’evoluzione – l’orizzonte dei giorni che mancano al congedo, al ritorno a casa – e poi prontamente la nega, mettendo episodi sparsi, banale cronaca di guerra vista con l’occhio di una macchina da presa libera, che vuole sempre dare l’illusione di seguire lo spazio, piuttosto che crearlo, come se fosse un documentario.
Atteggiamento forse originato dalla sceneggiatura del giornalista Mark Boal, che ha partecipato alle missioni della stessa squadra di artificieri e che ha sicuramente dato origine ad uno sguardo in qualche modo realistico sugli eventi.
Nemmeno William è un eroe, nemmeno uno che affronta una bomba a mani nude può esserlo: nessuno da l’impressione di farlo per il paese, per il coraggio, per la gloria, ma semplicemente per necessità . Perchè l’emozione dell’adrenalina non si supera: le didascalie che informano dei giorni che mancano non sono la fine dell’incubo, ma la data di termine di un’esistenza perversamente appagante.
Tra una gita al supermercato con la famiglia, o la sfida ad una macchina di morte perfetta e sleale, non sembra poterci essere (purtroppo) alcun paragone.

Locandina
Titolo originale: The Hurt Locker
Regia: Kathryn Bigelow
Sceneggiatura: Mark Boal
Fotografia: Barry Ackroyd
Montaggio: Chris Innis, Bob Murawski
Musica: Marco Beltrami, Buck Sanders
Interpreti: Ralph Phiennes, Jeremy Renner, Anthony Mackie, Brian Geraghty, Guy Pierce, David Morse
Nazione: USA
Anno: 2008
Durata: 130 minuti
Distribuzione: Videa CDE

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