Cinque anni di lavorazione. Dio, sembra un kolossal cinematografico. Cinque anni di ripensamenti, levigature, pause e ripartenze. Un annuncio raggelante: il disco più depresso della storia.
Gli Have A Nice Life sono due perfetti sconosciuti (anche se probabilmente fra qualche tempo non lo saranno più), due ragazzi americani senza volto, due musici provenienti dall’oscurità come discepoli del suono dell’oscurità . Il loro disco d’esordio, “Deathconsciousness”, è un’opera immensa, sia per come è strutturata (si tratta di un doppio Cd) sia per il suo valore artistico. La parola kolossal, usata inizialmente, a questo punto sembra proprio calzare a pennello.
Una paludosa melma lo-fi sommerge bassi turgidi e chitarre arrotate, scorre attraverso ipnotiche ritmiche metalliche e suoni rugginosi ed evapora in un pulviscolo brillante che si sparpaglia su ghiacciate ambientazioni dreamy dimenticate dalla luce.
Le filtratissime voci si rannicchiano nelle fosche cavità scovate a fatica tra i suoni, si intersecano creando intrecci vocali di struggente onirismo, intonano canti di intensa disperazione tanto quanto di solenne religiosità (pagana, anzi, profana).
è angoscia Cindytalk, è tenebra Swans. è svagatezza My Bloody Valentine priva però del suo lato tenero. Ma non basta, non basta a far palesare di fronte ai vostri occhi auditivi gli scenari opprimenti di “Deathconsciousness”.
Il primo hit (se così si può dire) del doppio album è “Bloodhail”, gelida ninna nanna dream-pop sorretta da un semplice (e bellissimo) basso mantrico e battuta da placide tempeste ‘galattiche’ di chitarre vaporose e drones boreali. Se “Bloodhail” ha un che di aeriforme e ‘spaziale’ pezzi come “Hunter” e “Telephony” sembrano avvolti da un’oscurità pesantissima, sotterranea, che sa di polvere catacombale e terra umida. Il primo viene forgiato lentamente, tra singulti di batteria artificiale echoizzata e rintocchi a morto. Poi, nella seconda parte del brano avviene una inaspettata impennata: esso si trasforma in una stupefacente cavalcata gotica, a base di ritmiche sferzanti e epiche arabescature sonore.
“Telephony” è il pezzo più ottantiano dell’opera, tanto tetro quanto danzabile. Eppure suona anche freschissimo e per niente meramente anacronistico.
Dalle parti di un dark-pop levigato e apparentemente innocuo si aggira “Holy Fucking Shit, 40000”, che però subisce una brutale licatropizzazione e trascende in una fragorosa, disturbata dance industriale da fine del mondo. C’è pure l’anthem da headbanging zombesco, ovvero “The Future”, sorretta da mordaci ritmiche Killing Joke/Big Black e investito nel ritornello da un luccicante turbine di sciabolate tastieristiche.
“Deathconsciousness” si rivela essere un nuovo importantissimo punto di riferimento per la musica oscura, ma avrebbe le carte in regola, perchè no, per imporsi anche nel resto della scena musicale ‘alternativa’. Anche se poi alla fine sappiamo che questo non avverrà mai.
Sarà difficile che durante questo 2008 un altro disco si avvicini alla magnifica bellezza ‘nera’ di questo miracoloso “Deathconsciousness”.
Credit Foto: Dan Barrett and Tim Macuga [Attribution], via Wikimedia Commons