Cambiano le stagioni, le giornate prendono un’angolazione diversa ed esce un nuovo album dei Cure: ci sono tutti i presupposti per vivere un inverno diverso questa volta, senza indugiare tremolanti in attesa dei cambiamenti. Ogni tanto qualcosa muta la quotidianità e un disco accompagna i nuovi pensieri adagiandoli in un comodo letto di sensazioni nuove. Ai nuovi odori, ai nuovi sapori mi ci abituo con calma, ho bisogno di girarci intorno, di provarli a fondo. Non chiedo altro che una canzone, una nuova canzone.
Qui sono addirittura tredici, come annunciato anche dal titolo, l’imbarazzo sale tanto quando si tratta di una band che ha segnato la mia tarda adolescenza e praticamente gli ultimi quindici anni della mia vita, che sono un lasso di tempo considerevole rispetto alle mie trentatrè primavere appena compiute. Lasciamo da parte il soggettivo amore per una voce che potrebbe pure ruttare o cantare in aramaico, tanto sarebbero sempre brividi sulla pelle e giornate di dolci attese in compagnia di queste note, fingiamo di essere oggettivi e chiarire una cosa: questo è un buonissimo disco.
Quasi ci si ustiona a maneggiare una materia tanto ricca di storia, ma nel 2008 non ci si poteva aspettare forse di più. I Cure sono una pop-rock band ( l’ordine delle parole non è affatto casuale) ancora capace di costruire un disco solido, che magari non vive momenti memorabili, ma non accusa battute a vuoto oppure pause imbarazzanti. “Undereath the stars” è la classica ballata da intro in stile “Disintegration”, probabilmente il momento più riflessivo di un lavoro energico, orecchiabile e discretamente affilato. “Only One” si inchina ad accattivanti melodie pop, mentre “Sirensong” si affaccia anche su territori acustici. “Freakshow” , come “Real snow White” sono due piccole gemme di rock obliquo che sembrano uscire dalle session di “Wish”. Nel complesso, le asperità del precedente “The Cure” qui prendono forma di canzoni meno aggressive, più centrate anche se spesso al limite del collasso in una produzione comunque molto ricca, quasi invasiva.
La voce di Robert Smith è sempre carica di grandissimo pathos e si districa bene anche quando le sonorità sembrano essere sul punto di soggiogare la linea vocale, come in brani come “Scream” e “It’s Over” che chiudono in maniera forse eccessivamente caotica la scaletta. Qualche purista storcerà il naso, probabilmente a torto perchè “4:13 Dream” sa regalare momenti di ottima musica. Come direbbe il buon Just, io non credo nei puristi e, quando chiedi un inverno diverso e allo stesso tempo una vecchia certezza con cui condurlo per mano, dischi come questo sono esattamente ciò che stavi aspettando.
2. The Only One
3. The Reasons Why
4. Freakshow
5. Sirensong
6. The Real Snow White
7. The Hungry Ghost
8. Switch
9. The Perfect Boy
10. This. Here And Now. With You
11. Sleep When I’m Dead
12. The Scream
13. It’s Over