Lo avevamo lasciato a Venezia lo scorso anno, con un toccante documentario su Jimmy Carter, e l’ultima volta che lo si era visto sugli schermi italiani era stato più di quattro anni fa, con un blockbuster anomalo come “The Manchurian Candidate”.
Jonathan Demme sembrava uno di quei registi persi nella nebbia, dopo aver toccato l’apice con l’Oscar per Il silenzio degli innocenti, e il successo planetario di Philadelphia.
Lentamente e volontariamente era nell’ombra di produzioni minori e di due documentari: “The Agronomist” e il già citato “Man from Plains”.
Demme torna ora con un capolavoro – è impossibile non salutare “Rachel Getting Married” in altro modo – come se il bagno nelle sue origini di impiegato della factory di Roger Corman, capace di sbrigare ogni compito legato alla produzione cinematografica, gli avesse giovato e lo avesse spinto a cercare uno sguardo nuovo sulle cose.
Inutile dire che parte di questa rinnovata verve si deve molto all’incontro con Declan Quinn, direttore della fotografia che ha fatto di “Rachel Getting Married” un film dal linguaggio fresco ed originale, una narrazione che sembra farsi quasi in diretta, colta da una macchina a mano che riesce a muoversi nella casa della famiglia al centro del film, a gestire il montaggio e a creare la giusta relazione spaziale dei corpi, in modo naturale eppure allo stesso tempo studiato.
Non è un film che trae la sua forza da un ricostruito realismo – perchè la messa in scena appare tale, ma è palesemente calcolata al millimetro – ma dalla sua sincerità , che non fa sconti e allo stesso tempo si affeziona tanto alla descrizione degli uomini e le donne che racconta che darebbe qualsiasi cosa per essere accondiscendente con loro.
C’è una sequenza piuttosto chiara delle intenzioni del film: il padre di famiglia e il suo futuro genero si sfidano in una gara a chi riempie meglio una lavastoviglie in minor tempo; è una scena gioviale e gioiosa, il tipico momento felice di una facoltosa famiglia liberal del Connecticut. La macchina da presa si muove vorticosamente tra le azioni dell’uomo, il suo volto, coglie gli spettatori in grida di gioia e di partecipazione.
Il padre ha talmente tanto vantaggio che chiede altri piatti per riempire il tempo che manca alla vittoria, e gli capita tra le mani il piatto nascosto di suo figlio morto anni prima: la camera si arresta sul suo primo piano sconvolto dal dolore e dalla nostalgia, e la scena cambia registro in un secondo, passando dall’allegria alla mestizia.
La bellezza dell’ultimo film di Demme è in questa felicità sofferta di un altro nucleo familiare disfunzionale, nell’accostamento di scene di gruppo felici (è un matrimonio: ci sono amici, parenti, musica a non finire) e la presenza di primi piani che colgono tensioni e conflitti mai sopiti, in un contrasto sottile e mai risolto.
C’è il volto di una straordinaria Anne Hathaway che lotta contro i suoi demoni di ex-tossica nel pieno del suo rehab. Quello di un’altrettanto fantastica Rosemarie DeWitt – la sorella che si sposa – che chiede attenzioni al padre. Tutto rimanda al lutto indicibile della morte tragica del bambino, alla rivalità tra le due che non riesce ad essere elusa.
L’onestà di Demme è limpida e cristallina, quella di un uomo che sa come sia impossibile superare tutto con la riconciliazione di un semplice matrimonio, e non rinuncia comunque a concedere ai suoi personaggi una possibilità pur parziale di redenzione: nel bagno quasi materno che la DeWitt concede alla sorella ormai alla deriva tra droghe, alcool e complessi di colpa insuperabili, di cui decide di prendersi cura, nella reciproca commozione di tutta una famiglia, in un matrimonio eccentrico celebrato con gioia e speranza di unità e reciproco conforto, con lo sposo che canta “Unknown Legend” di Neil Young per dichiarare il proprio amore.
Tutto “Rachel Getting Married” è un inno alla instabilità perenne della felicità , la mobilità della ripresa fa in modo che tutto non sia mai definito e stabile (relazioni, stati d’animo), mischia i piani del dolore e della speranza, accettando l’unica soluzione di una coabitazione problematica ed inevitabile. E’ nella paura imbarazzata dei genitori e dei presenti, quando Anne Hathaway trasforma un discorso nuziale in un monologo in cui pesa l’ombra di quello che si vuole allontanare, guastando l’illusione (in quelle facce, c’è tutta la sommessa e disperata voglia di non tornare alla realtà che era propria di Qualcosa di travolgente, il folgorante esordio alla regia di Demme).
Nulla si risolve, niente si aggiusta: tutto va avanti, semmai.
Si continua a vivere, nonostante il lutto e il dolore, nonostante madre e figlia che si prendono a pugni: ci si può rinfacciare colpe e responsabilità pesanti come macigni, ma resta in Demme la volontà di non arrendersi al nichilismo, di concedere ad ogni suo personaggio una seconda possibilità .
|