Non dovrebbero servire troppe presentazioni per i Travis, il quartetto scozzese balzato agli onori delle cronache musicali sette anni or sono con “The Invisible Band”, album che fece letteralmente terra bruciata nell’estate del 2001, scalando le classifiche al suono di hit come “Sing” e “Side” (nonostante il precedente “The Man Who”, il capolavoro assoluto della band, fosse qualitativamente almeno una spanna più avanti).

Oggi il gruppo guidato da Fran Healy si ripresenta al pubblico con un nuovo lavoro, “Ode To J. Smith”, dato alle stampe ad appena un anno di distanza dal mezzo flop di “The Boy With No Name”. Un album scritto di getto, viscerale, molto ‘suonato’, figlio dell’urgenza di comunicazione di un gruppo sul quale molto può essere scritto, ma che di certo non si può definire ‘poco prolifico’. Appena una settimana per scrivere le canzoni e due per registrare il tutto; poche limature, zero effetti speciali. Tocca dunque a “Chinese Blues” il compito di aprire le danze, ed è subito un piacere ascoltare il ritorno delle chitarre elettriche che da troppo latitavano sotto quei cieli glasvegiani; sfilano poi in una rapida successione fatta di tensioni a sei corde e aperture melodiche tutti i brani migliori a disposizione, dal singolo “Something Anything”, di stampo tipicamente Travis-iano, al blues-rock sincopato di “Long Way Down” (a mio avviso il miglior pezzo dell’intero album), fino alla malinconia diluita nei riverberi della lenta “Broken Mirror”.

Dopo i fuochi d’artificio iniziali purtroppo la vena creativa sembra calare vertiginosamente, quasi che la band preferisca tirare i remi in barca e tornare a veleggiare nelle acque più sicure del manierismo britpop, piuttosto che osare oltre il necessario. La seconda metà  dell’album si assesta su una mediocrità  da elettroencefalogramma (quasi) piatto, con pochissimi sussulti che non riescono nell’ingrato compito di risollevare dalla banalità  un lavoro che da un certo punto in poi vira in direzione del ‘già  sentito’ e della noia.

Non basta il mood uggioso da outsider scozzesi ‘colonizzati da mezze seghe’ nè tanto meno il ricorso a stilemi ormai troppo inflazionati per cancellare l’impressione che questo “Ode To J. Smith” sia un disco colto al momento sbagliato, forse quando non era ancora del tutto maturo: un disco non brutto, ma superfluo. Alla fine potrebbero anche rasentare una sufficienza stentata: ma i Travis sanno fare di meglio e lo hanno dimostrato altrove.