Basterebbe prendere il duello tra il leone Zuba e il suo arruffone rivale Makunga, confrontarlo con quello messo su da Mufasa e Scar ne “Il Re Leone”, per arrivare capire che tra i due esempi ci passa in mezzo molto di più che tutta la distanza di quindici anni di animazione.
Quindici anni che sembrano un secolo, in cui non sono cambiate solo le forme dell’animazione, ma addirittura la filosofia stessa dei suoi personaggi, della sua morale.
La Dreamworks – ancor più che la Pixar – ha lavorato in modo pesante su questo tipo di rinnovamento, di cui può vantare una primogenitura, basata su una rivoluzione copernicana iniziata con la creazione di “Shrek”: il reinserimento nella società non avviene più attraverso il progressivo smussamento della propria diversità (l’orco non diventa mai bello e prestante, anzi…), ma viceversa con la rivalutazione dei propri difetti come segno di distinzione dalla massificazione.
In “Kung Fu Panda” era Jack Black a prestare le parole al goffo mammifero ciccione con il sogno di diventare un maestro di arti marziali, nel ritorno dei quattro animali/new yorkers in Africa è Ben Stiller a ridare la voce al leone Alex, che finalmente ritrova i propri genitori nel suo luogo di nascita. Essere il Re di New York non è la stessa cosa che essere il Re della Savana, e il ragazzo capisce presto di dover trovare un posto nel mondo, non diventando però il leone fiero e coraggioso che dovrebbe essere, quanto piuttosto preservando le sue caratteristiche di ballerino e di frontman, all’apparenza del tutto inadeguate per il posto in cui si trova.
Il legame con il Frat Pack è quindi molto più che l’omaggio vocale al personaggio, ma la vera e propria ricerca di una saldatura, che si va ad inserire come nodo centrale di un gioco ben più sottile di citazioni: dalla commedia slapstick (gli intermezzi con la terribile vecchietta) a quella più tipicamente televisiva (i leoni restano pur sempre dei cittadini di New York, come dimostrano le paranoie ipocondriache della giraffa Melman) che non può far dimenticare l’esperimento esistenzialista di “Bee Movie”, scritto da un autore e commediografo come Jerry Seinfeld, che a Manhattan è di casa.
Il prodigio tecnico a cui è ormai arrivata l’animazione digitale è tutto nella sequenza in cui i protagonisti scoprono di non essere atterrati al JFK, nè tanto meno nel New Jersey, ma nel bel mezzo di una riserva africana: i loro occhi osservano stupefatti l’habitat natio, di cui hanno una parvenza di ricordo, e il campo lungo che ne riporta la soggettiva ha qualcosa delle inquadrature predestinate.
Tuttavia, il cinema della Dreamworks è sempre un cinema che ha scoperto di nuovo il sentimento: come accade per la Pixar, è come se sotto la lente digitale tutto quello che si era già visto, tutte le emozioni messe già in campo, prendessero una nuova vita, prendendo la forza dirompente della prima volta.
Così, i momenti migliori sono nell’ansia, nel terrore dipinto sul volto della zebra Marty che teme di aver perso la propria unicità , di essere entrato in una mandria, di essere diventato una zebra uguale a mille altre zebre, impossibile da distinguere persino dall’amico fraterno Alex.
Nella stupefacente dichiarazione d’amore della giraffa Melman all’ippopotamo Gloria, che assieme al pinguino e alla sua statuetta totem, rappresentano senza dubbio una delle coppie più disfunzionali della storia del cinema (negli anni settanta, ci si scandalizzava per “Harold & Maude”!).
La solennità de “Il Re Leone” è passata ai libri di storia: perso il senso dell’epica, il nuovo cinema d’animazione ha imparato a ridere di sè stesso e a far ridere con mezzi di fortuna.
Gli si può perdonare persino l’inevitabile deriva ecologista, con gli uomini impegnati a distruggere l’ultimo barlume di natura disponibile: la trovata di farli chiamare ‘sapiens’ dagli animali riporta tutto di nuovo sui giusti binari di chi non si vuole mai prendere sul serio.
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