L’anno scorso, fu “Espiazione” ad arrivare persino ad un passo dall’Oscar.
Quest’anno, il cinema inglese ha presentato questo dramma in costume come uscita di punta della sua stagione, e La duchessa ha confermato vizi e virtù della produzione britannica: da un lato, una perfezione ed una purezza formale che rasenta la freddezza; dall’altro, la bellezza quasi imbarazzante di Keira Knightley, capace di sostenere quasi due ore di narrazione solamente con la forza di uno sguardo in macchina.
Parlando chiaro: la nemmeno ventiquattrenne ragazza di Londra ha ancora molto da imparare nel campo della tecnica, ma ha di suo una caratteristica che non si può insegnare, ed è quindi molto più importante che la padronanza del mestiere: la presenza scenica e la capacità di riempire lo schermo solo con la strepitosa simmetria del suo volto. Con questi presupposti, la strada per la consacrazione a diva è solo una questione di (sua) volontà .
Saul Dibb la lezione invece l’ha capita subito: tenersi in disparte, e lasciare che la Knightley faccia il film, rubando la scena a tutti (persino ad Hayley Atwell, che si era fatta notare in “Sogni E Delitti” di Woody Allen). Della sua personalità di regista si può ammirare il modo con cui ha rinunciato all’impeto giovanile di farsi notare, e si sia eclissato in favore della sua attrice, sperando che lei lo porti lontano. “La Duchessa” quindi non presenta altro che una serie di lunghi carrelli che la seguono nei corridoi del palazzo di Devonshire, o di formali primi piani con luce d’atmosfera che la mettano bene in mostra nei suoi tormenti interiori. Il personaggio è affidato per intero alla fotogenia dell’attrice, piuttosto a suo agio tra parrucche enormi, corsetti e giarrettiere: dopotutto, la sua costruzione psicologica, piuttosto scontata, è quella degna di un romanzo di Harmony, con palpitazioni, sospiri, ed umiliazioni tipicamente femminili.
Polpettone sentimentale e storico, la vera vita di Georgiana Spencer Devonshire è un ottimo antecedente e una buona scusa per parlare indirettamente di Lady Diana, la principessa triste e mai amata dai Windsor: per quegli strani ricorsi storici, le due donne vissute a due secoli di distanza si somigliano come due gocce d’acqua.
Così, la duchessa deve sopportare la presenza dei paparazzi (che all’epoca si limitavano a disegnare, piuttosto che a usare teleobbiettivi e a lanciarsi in inseguimenti folli e tragici), vivere da separata in casa insieme alla sua rivale in amore, sopportare tradimenti e angherie per la ragione di stato.
I riferimenti al recente passato del Regno Unito sono evidenti, e il belloccio del popolo che la seduce e si perde tra il suo charme regale è un clichè della letteratura rosa.
Per di più, l’incantevole Knightley non è diretta da Stanley Kubrick, e non tocca la profondità malinconica di una Lady Lyndon, anche se regge benissimo la sfida di allure con Marisa Berenson, che la impersonava più di tre decenni or sono. Così, il referente più vicino è piuttosto Kirsten Dunst e la sua “Maria Antonietta”, portata a Cannes quasi tre anni fa da Sofia Coppola.
“La Duchessa” non vuole però sfuggire alla tradizione, e tentare la strada dell’adattamento insolito e dissacrante non è il suo obbiettivo. Anzi, fa della propria fedeltà ai classici una sorta di punto d’onore e di motivo d’orgoglio.
Come spesso accade a certi prodotti inglesi, la confezione è perfetta, il film è piacevole.
Alla resa dei conti è tuttavia privo di anima, di sentimenti che non siano quelli rituali e codificati di un ricevimento a corte.
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