Mettiamo che. Muccino infatti forza la mano su tutte quelle che sono le sue caratteristiche, i suoi biglietti da visita, le sue armi conosciute al pubblico, che sempre ne hanno decretato la fortuna commerciale e la scarsa considerazione accademica: il patetismo, la scelta etica e morale, la favola edificante ai limiti della parabola biblica. Al confronto, la facilità ingenua de La ricerca della felicità impallidisce: Will Smith non si muove più tra barboni, disoccupati e rifiuti umani, personaggi che sono comunque un prodotto della società ; stavolta si muove tra i malati terminali, i disgraziati a cui la sorte cieca ha giocato un brutto tiro, come Gesù sulle tracce di qualche Lazzaro da resuscitare, purchè la sua vita e la sua bontà meriti tanto. Sì, questa volta Gabriele Muccino è andato coscientemente fuori da ogni controllo. Sì, si può dire che proprio qui Gabriele Muccino abbia deciso di calare la maschera e di non vergognarsi, di sfruttare l’occasione (l’ultima, una tra tante?) di una produzione americana per fare il suo cinema: che lo si ami o lo si odi, lo si apprezzi o lo si invidi, bisognerà quanto meno riconoscergli il coraggio di essersi mostrato per quello che è. Come ogni regista di melò, a Muccino interessano solo le scene madri, quelle in cui lo spettatore non può far altro che decidere di perdersi oppure restare scettico, abbandonarsi alla messa in scena (labbra che si sfiorano, poche note di pianoforte, un destino infelice segnato sin dalla prima sequenza, che rende ancor più malinconiche quegli attimi che i protagonisti riescono a rubargli) oppure odiare chi lo sottopone ad un inganno così manifesto, così chiaro eppure allo stesso tempo subdolo e fastidioso. |
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