Difficile che un cineasta rinunci a se stesso.
Anche quando è in ballo il suo progetto più ambizioso – il primo grande kolossal australiano con star nazionali come Nicole Kidman e Hugh Jackman – prodotto con più di cento milioni di dollari, Baz Luhrmann non ha fortunatamente rinunciato al suo cinema.
Era forte il pericolo di un ‘film-frankenstein’, di un omaggio al melò anni trenta affossato sulla copia, simile ad operazioni intelletualoidi e nichiliste come “Intrigo A Berlino” di Steven Soderbergh (che più che omaggiare il noir, ne decretava la morte in modo mesto e funereo).
Quando però uno il talento ce l’ha, ce l’ha punto e basta.
E sarebbe sufficiente richiamare alla mente la splendida sequenza in cui Nicole Kidman intona le note di “Over the Rainbow” al suo trovatello aborigeno, davanti ad un cielo al tramonto, artefatto e di un rosa dalle tinte al Technicolor, per capire che forse Luhrmann vuole sì sfidare l’epica di Via col vento, vuole sì omaggiare i western trapiantandoli nella sua terra d’origine, ma ha sempre negli occhi “Il Mago Di Oz”.
Dove si perde, Luhrmann è forse nel tentativo di riconciliare la sofferta storia australiana, semplificando ad ogni costo il sofferto passato razzista dei britannici, che imposero per secoli un malcelato apartheid nei confronti dei nativi: è però una questione politica che importa poco davanti alla maestosità visiva del suo film, che riesce nello stesso tempo a stare sui classici senza appiattirsi, senza farne una gelida autopsia, ma al contrario affermandone la splendida vitalità : mezzi tecnici superiori al servizio di un’anima ancora fedele ed innamorata.
Lo si può capire ad esempio nella distribuzione assolutamente rigida dei personaggi: il contabile beone che riscatta sè stesso con il sacrificio è preso di peso dalla tradizione del western, a cui la prima parte si rifà in modo mirabile, fino alla stupefacente fuga delle mandrie; Hugh Jackman è un Clark Gable ancor più virile che non sbaglia mai, come ogni eroi che si rispetti, Nicole Kidman è fantastica nella sua trasformazione da aliena a donna perfettamente integrata nello spazio e nel tempo della frontiera, David Wenham è un cattivo memorabile e senza possibilità di redenzione.
Se Reth e Rossella ritornano quasi filologicamente nella sequenza (un voluto non-finale) in cui lui la abbandona per tornare a fare il mandriano, rifiutando come il cow-boy che è la trappola (o la responsabilità ) della civiltà , Via col vento è semmai piacevolmente invadente nei dolly vorticosi della tenuta di Faraway Dawns, o nei resti della cittadina di Darwin dopo il bombardamento giapponese.
C’è di tutto e di più, e si rischia di finire disorientati: forse è qui il motivo dell’insuccesso commerciale di “Australia”, di un film che inizia con una fantastica scazzottata in un saloon – il suo protagonista non si vede per intero che quando la Kidman non decide di vederlo – e finisce con un tentativo di superare divisioni ataviche, tra l’istinto primitivo del viaggio e quello della quiete domestica; o forse, è solo la progressiva e colpevole disaffezione verso gli sguardi (quello con cui la Kidman osserva Jackman entrare in una sala da ballo dell’alta società : seppure sbarbato e vestito di tutto punto, è sempre fuori posto nella sua mascolinità selvaggia) e i tempi cinematografici del cinema degli anni d’oro, il ralenti di un bacio sotto la pioggia, o di un salvataggio all’ultimo minuto.
Abbiamo perso la fascinazione che avvolge il piccolo Nollah mentre vede di nascosto Il mago di Oz?
Se il cinema ci ha insegnato che non c’è un posto come casa propria, Baz Luhrmann ha provveduto a fornirci le scarpe rosse necessarie a tornarci.
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