Je suis l’Empire à  la fin de la dècadence,
Qui regarde passer les grands Barbares blancs
En composant des acrostiches indolents
D’un style d’or où la langueur du soleil danse.

Paul Verlaine (“Langueur”)

Decadenza. Angoscia. Disillusione. Un’Europa in declino, dimentica della lezione del passato e dei propri atavici valori. L’estetica della Caduta. Un’Europa, o meglio un’intera società  occidentale, in disfacimento e sull’orlo del baratro: è questo il fosco quadro che l’eccentrico Douglas P., ormai nel 1987 unico portavoce della “Morte In Giugno”, tratteggia con il suo visionario “Brown Book”. Allontanatosi definitivamente dalle sonorità  darkwave / punk degli esordi (nella scia dell’allora imperante “Factory Sound”), Pearce evoca i suoi incubi in una sempre più stretta simbiosi creativa con il mefistofelico David Tibet, guru della scena industrial e sacerdote occulto nei perversi Current 93.

“Brown Book” è l’apogeo della produzione Death In June ed il manifesto programmatico di un genere, il neo-folk (o apocalyptic-folk), in cui sonorità  acustiche della tradizione europea si fondono con sperimentazioni post-industriali ed atmosfere crepuscolari e desolanti. E questo è anche il disco che consegna alla storia della musica l’ambigua figura di Pearce ed il canone estetico e poetico a cui i suoi componimenti fanno riferimento, tra continui richiami all’immaginario militare ed alla storia del Novecento, alla perduta supremazia dell’Europa quale paradigma della decadenza umana, alla ritualità  esoterica ed alle radici arcane dell’identità  del Vecchio Continente. Il Totenkopf sogghignante che campeggia in copertina, la “Testa di Morto” emblema dei reparti SS nazisti e simbolo della band, è una controversa presa di posizione. Una esplicita ed estrema dichiarazione di intenti rimarcata a partire dallo stesso moniker, macabro richiamo a quei fatti consegnati alle pagine dei libri come “Notte dei Lunghi Coltelli”; passando per l’esasperata iconografia paramilitare e per le composizioni infarcite di tamburi marziali, trombe da parata e proclami di gerarchi nazisti (e come non citare allora la title-track “Brown Book”, ovvero nientemeno che la mortifera “Horst-Wessel Lied”, l’inno per eccellenza del Partito Nazionalsocialista hitleriano). Un’immagine misteriosa e velata da un fascino “nero”, alimentata dalla ritrosia a chiarire posizioni ed implicazioni ideologiche in merito a temi scottanti: pura provocazione, lapidario monito, o somma fede nel proprio credo e nel “ruolo sociale” dell’artista?

La discesa negli incubi più reconditi di Pearce ha inizio con la nenia di “Helige Tod”, “La Santa Morte”, cantilena per voci femminili e cassa cupa ad annunciare la calata degli “Angeli dell’Apocalisse”. Le ossessioni di Douglas sfilano in una lenta parata militare carica di simboli e tormenti: la litania baritonale di “Hail! The Wait Grain” suona come un’epica ballata funebre tra rintocchi di campane e versi reiterati, “Runes and Men” è un inno blasfemo all’angoscia ed alla morte su sottofondo di fanfara militare e comizi del Terzo Reich:

Turn me to a pillar of salt
To die now would be perfection…
Why does the devil leave for us
This legacy of lonliness?

“To Drown A Rose”, celebrazione idealizzata dell’amore sofferto e perduto – My hate is love to me… -, è una tragica rievocazione che fonde l’eterea voce di Rose McDowall al tono cupo di Pearce, una limpida chitarra acustica e trombe maestose su un ossessivo drumming elettronico. La post-apocalittica “The Fog Of The World” unisce la solita chitarra ad uno straziante pianto di neonati, il tutto dominato da liriche stranianti:

I’d like to be the one
Who makes mothers cry…
Here in the fog of the world
But what can be born?

Tutto il disprezzo per la modernità  stilla greve dal livido lamento funebre di “We Are The Lust”, per lasciare poi spazio all’allucinata declamazione di David Tibet su “Burn Again”, mesto sigillo ad un capolavoro fin troppo sottovalutato.

“Brown Book” non è solo un disco di riferimento per tutto il cosiddetto ‘folk nero’, ma è una pietra miliare imprescindibile ed uno degli album più controversi mai pubblicati, che paga ancora oggi con l’oblio la sua inflessibile integrità  ideologica.
I Death In June mettono qui in scena il loro macabro rituale pagano sulle reliquie della civiltà  occidentale.