L’otto agosto del 1974, Richard Nixon si presentò davanti alle telecamere per annunciare le sue dimissioni da Presidente degli Stati Uniti, carica che ricopriva dal 1968. Dall’altra parte del mondo, l’anchorman televisivo David Frost stava conducendo un talk-show senza pretese con bizzarri protagonisti australiani.
Le sue sequenze, apparentemente slegate, le due esistenze così differenti – la solennità dell’uomo politico e la frivolezza del presentatore – trovano immediatamente un legame: la possibilità di mettere in scena il più grande spettacolo televisivo della storia.
Nella molteplicità di significati che possono emergere da “Frost/Nixon”, quello della preparazione dell’allestimento, della stesura del copione, dell’organizzazione delle quinte, sembra essere il più preponderante e significativo: il conduttore che deve dimostrare di essere all’altezza del compito di affrontare il più controverso leader della storia recente, e il capo meno telegenico che sia mai esistito costretto a scendere nel terreno a lui meno ospitale (E’ a conoscenza del mio problema di traspirazione, vero? Lei non deve certo avere queste preoccupazioni…).
Il loro è un training sofferto, un allenamento estenuante verso l’incontro finale, sostenuto da una schiera di secondi posizionati all’angolo, suggeritori, amanti appassionati. Su tutto, spicca la maestosa interpretazione di Frank Langella, decisamente a suo agio nel ruolo del Re decaduto, così vicino al suo retaggio da leone del palcoscenico, così credibile nella sua condizione di vecchia gloria ormai caduta nell’oblio.
Se inevitabilmente il minimalismo dei set (una buona parte del film è girata nella casa in cui si svolsero le interviste) lega “Frost/Nixon” ad una chiara derivazione teatrale, l’adattamento dello stesso drammaturgo Peter Morgan sembra comunque amalgamarsi a perfezione al cinema di Ron Howard, per cui la televisione è stata sempre al centro dell’attenzione, così come il lavoro sulla rielaborazione iconografica del repertorio comune del piccolo schermo (il punto di vista ribaltato sul celebre discorso di addio alla Casa Bianca).
La macchina da presa ha una libertà di movimento limitata, schiacciata dagli attori che si muovono ingombranti in spazi troppo stretti, ma nello stesso tempo Howard riesce a farne una virtù, concentrandosi su tutto il meccanismo che sta dietro allo show. Non solo a livello di emotività – giorni e giorni di preparazione, preoccupazioni finanziarie, mancanza di fiducia in sè stessi, solituduni, voglia comune di tornare alla ribalta – dei protagonisti, ma anche ad un livello di ostentazione fisica del medium, con la palese presenza delle telecamere, dei tecnici del suono, delle luci che si fulminano improvvisamente…
“Frost/Nixon” non è così un film sull’intervista, sulla carriera politica del Presidente giunto alla confessione dei suoi crimini, ma una sorta di documentario sulla lavorazione, come dimostrano i finti inserti delle interviste ai manovali dell’evento, più vicine agli extra di un dvd, ad un making of, che non a delle rievocazioni significative.
L’intervista in sè è un furioso incontro di boxe, in cui la morale politica passa in secondo piano, persa nel titanico monologo del Presidente, ubriaco al telefono nella sua residenza estiva, confinato e malato come un Napoleone in esilio, con vista sull’Oceano Pacifico.
Pure sconfitto, pure costretto ad una dolorosa ammissione di colpa, il fantasma del Presidente riesce ancora una volta a sottrarsi ad un giudizio del tutto privo di pietà : come accaduto in passato (nel film di Oliver Stone del 1996), la sua vita, il fascino malsano di un potere incarnato nella sua dimensione più corrotta, emana un fascino a cui neppure Ron Howard è riuscito a sottrarsi.
|