In qualche modo, “Frozen River” possiede quella crudezza solitamente estranea al cinema americano, che cerca di esorcizzare i problemi e gli stati d’animo nazionali, di ricomporli piuttosto che approfondirli criticamente ed esasperarli.
Eppure, ci sono cose ormai talmente forti – la più spaventosa recessione economica del dopoguerra – che non possono essere ignorate, e così anche l’acquisto di una casa (il primo passo del e vissero felici e contenti di Hollywood) diventa un modo per girare un film che mostra un gusto per il pedinamento, per il grottesco che sta dietro alle situazioni più comuni, di zavattiniana memoria.
Allora, il film d’esordio di Courtney Hunt (candidata all’Oscar per la sceneggiatura originale, e rivelazione al Sundance Film Festival, dove ha vinto il Premio della Giuria) potrebbe anche essere associato ad un umore tipico di un certo cinema italiano, in cui i personaggi partono sempre da una condizione di benessere medio borghese per poi precipitare nella dissoluzione morale o nella cronaca di una noia moraviana di chiara impronta letteraria.
Non è mai così, invece: anche quando c’è una madre disperata, abbandonata dal marito, forzata a non mettere altro che pop-corn e aranciata – per giorni – nel piatto dei suoi figli. Anche quando la famiglia abita in una scassata casa prefabbricata, mentre fuori ci sono trenta gradi sottozero, e i tubi gelano continuamente, e lo stipendio da commessa part-time della donna non basta a comprarne una nuova (e il figlio piccolo non chiede altro a Babbo Natale), con il lusso della vasca in bagno.
Anche quando il sogno americano sembra il più lontano possibile – solo un ironico slogan su un depliant di una ditta immobiliare, che spinge ad un suo consolidamento ormai irraggiungibile – il suo cinema riesce a salvarne un barlume, un piccolo pezzo da salvaguardare.
Non c’è mai l’abbandono compiaciuto, o il nichilismo autoriale di chi sale su un piedistallo e giudica la pochezza degli sforzi e del loro fine, fosse anche quello di “mettere qualcosa sotto l’albero”.
La Hunt costruisce un film su un rapporto femminile improbabile tra una donna bianca e una mohawk, legate dalla necessità di badare ai propri figli, con ogni mezzo necessario: se Ray non può ottenere il posto a tempo pieno al mart in cui lavora – è troppo vecchia, e poco appariscente – allora il suo primitivo richiamo di madre le fa accettare di fare da autista per i trasporti al confine degli immigrati clandestini.
Nella riserva indiana dove scorre il fiume ghiacciato, tutto è permesso e nessuno si impiccerebbe. Lo sguardo della Hunt tende all’assoluzione, pieno com’è di umana comprensione verso le due protagoniste. Dopotutto, sono donne completamente sole, a cui nessuno permette di vivere in modo onesto e dignitoso.
Se Ray viene costantemente umiliata sul lavoro, preferita ad una collega più giovane che non merita quello che ha (una semplice promozione), la sua compagna indiana viene ostracizzata dalla sua comunità , che le ha tolto il figlio, e l’ha condannata all’isolamento di una roulotte.
La Hunt si rende conto di non poter andare oltre nella legalità : nel ‘trasporto’ Ray mantiene sempre una sua etica (cerca di capire se quelli che porta sono possibili terroristi o meno) e comunque merita una blanda punizione. Qui forse le manca un po’ di coraggio, quando si impedisce di andare fino in fondo ““ travalicando le istituzioni e la morale ““ nel saldo legame di solidarietà che si crea tra le due.
Un rapporto quasi muto, un fatto d’istinto più che di amicizia.
Tra gli splendidi campi lunghi di una vita paralizzata dalla neve, in cui non scorre più niente: nemmeno l’acqua.
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