In pochi se ne accorgono ma il live di Barzin è aperto dai malinconici Blessed Child Opera di Paolo Messere, silenziose (si far per dire) anime tormentate del sottosuolo musicale italico. Anche se i BOC non mostrano una forte presenza scenica, le atmosfere struggenti e oscure ricreate dal vivo riescono a catturare la mente e a scavare nel petto, alla ricerca delle emozioni più dolorose e sincere, rimaste sepolte sotto le vacue distrazioni del quotidiano. Paolo Messere, insieme vibrante e abulico, è completamente noncurante del fatto che solo in venti probabilmente stanno assistendo alla sua performance, perso nelle nebbie delle sue canzoni crepuscolari scritte per pochi, scritte per sè.
Con Barzin è un’altra storia. è una malinconia un po’ diversa, meno cupa, più soave, ma che alla fine arriva lo stesso a straziare il cuore, non prima che questo rimanga ammaliato da arpeggi cristallini e soffici pennate e da una voce gentile e profonda, capace di sfiorare e poi centrare in pieno ricordi lontanissimi e altri vicinissimi. Prima dell’esibizione troviamo il cantautore canadese in un angolo vicino al bancone del bar dell’Init, con stampato in faccia un sorriso a bocca stretta di una timidezza disarmante. Mai visto un artista così schivo e umile, così dolce nello sguardo e affabile ed elegante nei modi. Dopo aver fatto quattro amabili chiacchiere, gli auguriamo un in bocca al lupo di cuore per il concerto, sicuri che sarà un gran bel sentire. Finalmente Barzin riesce a sfoggiare un vero e proprio sorriso mostrando anche sti beneamati denti, e mentre anche i gli occhi sinceri sorridono anche loro, ci dice di sentirsi un po’ insicuro ed essere un po’ incerto sull’esito che avrà la performance. Beh, a parte la chitarra capricciosa che vuole essere sempre accordata (Barzin, timoroso e un po’ impacciato, si scuserà del problema tecnico con una voce a dir poco tremolante), il live è stato spettacolare nella sua assoluta non-spettacolarità . Non sono canzoni queste. Sono sussurri romantici e un po’ dolenti a cui è stato alzato il volume.
Barzin riesce a donare grandi emozioni pur nella sua staticità , pur nella sua incapacità di abbracciare il pubblico e tendere verso di esso. Siamo noi che dobbiamo avvicinarci a lui, tendere a lui, cercarlo nella sua stanza segreta, lì dove è rimasto con una chitarra in grembo e il cuore a pezzi, che ora è sparso ovunque. Sparso in ogni angolo del club capitolino, un cuore distrutto che poi ritroveremo anche dentro le nostre di stanze, rimaste chiuse a chiave per troppo a lungo. La voce di questo gentiluomo del folk-rock indipendente riesce miracolosamente a rendere quei luoghi bui e umidi dell’anima abitabili, ci offre un riparo, un ristoro, ci porge una bevanda calda da sorseggiare, mentre rimaniamo imbambolati ad ammirare i tenui raggi del sole autunnale di “Nobody Told Me” intenti a rischiarare i pensieri, prima che le brezze vespertine di “Queen Jane” giungano a richiamare lacrime rimaste troppo tempo ad indugiare negli occhi.