L’esordio, “Marry Me”, uscito due anni fa, la vedeva ritratta di fronte, a mezzo busto, la massa scura dei capelli a incorniciarle il viso spigoloso. Spiccava su ogni cosa il rosso delle labbra e il grigioverde degli occhi sbarrati, quasi stupiti. Con “Actor” cambia l’angolazione, non più di fronte ma di tre quarti, e l’immagine si avvicina. Il fondale si fa vivo e acceso, mentre il volto è pallido, quasi etereo. Lo sguardo resta enigmatico: malinconico, sereno, immerso in un’attesa fiduciosa. Allora come oggi al centro c’è lei, Annie Clark, in arte St. Vincent: un passato di collaborazioni illustri, da Glenn Branca ai Polyphonic Spree, passando per Sufjan Stevens, e una carriera solista solida sin dall’esordio, che mantiene tutte le promesse alla prova del secondo album.
Il protagonismo di St. Vincent è esplicito sin dalla copertina e prosegue senza interruzioni tra i solchi delle canzoni. Annie, polistrumentista, scrive, canta, suona, cura gli arrangiamenti. Non si nasconde dietro timidezze o false modestie; ancora più che nell’esordio, anzi, si fa avanti decisa, sicura, consapevole. Nelle sue undici tracce, “Actor” percorre l’idea di un pop che nasce ispirandosi a strutture classiche, tanto del cantautorato che delle forme orchestrali, per scomporsi nella sovrapposizione di suoni e strumenti, regalando svolte improvvise, saturazioni, crescendo decisi, secchi cambi d’atmosfera. La recitazione richiamata dal titolo è cinematografica. L’impressione è quella di trovarsi davanti a una colonna sonora prima scomposta e poi rimontata, ma senza ripercorrere l’ordine originario dei pezzi. Così, può capitare che da un tappetodream-pop si arrivi in pochi minuti a un isterico synth-funk (“Marrow”), che una melodia sicura e immediata si trovi accanto a suoni ruvidi e ingombranti (“Actor Out Of Work”), che arrangiamenti quadrati e luccicanti accompagnino risate al sapore di sangue (“Laughing With A Mouth Of Blood”).
“The Party” si apre come una bella ballata pop, guidata dal pianoforte e da una voce sottile, per sfociare nel finale in un’orchestrazione da film. “The Strangers”, con le sue atmosfere classiche e l’uso di canto e controcanto, riporta invece alla mente certi vecchi musical. Parole simili possono essere spese anche per “Black Rainbow”, spezzata nella seconda parte da un crescendo saturo e stratificato, e “The Neighbors”, divisa tra strofe soffici e scorrevoli e un ritornello scuro, quasi marziale.
L’alternanza di caratteri e atmosfere, del resto, è uno dei principali fili conduttori del disco. Emerge nei testi: storie femminili di serenità recitata, inquietudini più o meno nascoste, insicurezze e frustrazioni. E’ nascosta nella voce di Annie Clark , mai completamente calma o pacata, ma venata di continuo da toni accesi, momenti cupi, salti e precipizi improvvisi. Si rispecchia negli arrangiamenti, composti tanto da scritture d’ispirazione classica, orchestrale, che da decisi inserti elettrici, sintetici ed elettronici. C’è in ogni occasione la presenza di elementi di rottura con la forma pop più comune, tanto quando a dominare è la dimensione delcantautorato (“The Bed”, brano che non sfigurerebbe nelle mani di Bjork), che quando a emergere è una psichedelia eterea e leggera, ma portatrice di inquietudine e claustrofobia (è il caso, questo, di “Save Me From What I Want”).
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2. Save Me From What I Want
3. The Neighbors
4. Actor Out Of Work
5. Black Rainbow
6. Laughing With A Mouth Of Blood
7. Marrow
8. The Bed
9. The Party
10. Just The Same But Brand New
11. The Sequel
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