E’ vedendo un film come “Ghost Town” che ci si domanda cosa sarebbe stato di Hollywood se non ci fosse stata una città come New York: perchè sembra impossibile trovare una città uguale nel mondo, in cui il cinema riesca sempre così facile.
E’ come se tutto quello che è girato a Manhattan prendesse una nuova luce, e ogni scenario, ogni possibile strada riuscisse credibile: forse è per questo che è la città della commedia brillante, anche quando assume toni grotteschi come il film di David Keopp, che affida al suo brillante lavoro di sceneggiatore il compito di costruire una storia avvincente ed emotivamente infallibile (si pensi solo al successo melodrammatico dell’amore spezzato tra Demi Moore e Patrick Swayze…), e a New York quello di esaltarla.
Come se per il regista, la città fosse in qualche modo il dentista Pincus di cui ha bisogno Greg Kinnear per comunicare con Tea Leoni, l’unico tramite per parlare al cuore e farla commuovere, e farsi perdonare per tutto quello che le ha fatto, proprio nel momento in cui è morto e non può più fare niente per lei.
In un’altra città – magari è solo una questione di telegenia, con quel Central Park che è bello in qualsiasi stagione, con i colori dell’estate o con quelli dell’inverno, e che il suo abito migliore se lo risparmia per l’autunno – tutto avrebbe avuto una sfumatura diversa, non così centrata, magari sarebbe diventata una gustosa parodia come nel glorioso “Fantasmi a Roma” di Antonio Pietrangeli.
E invece, la luce di New York entra persino negli interni, nello studio odontoiatrico, negli appartamenti dell’Upper East Side dove abitano i protagonisti, e si intona in modo quasi magico e naturale, con i loro stati d’animo.
Il processo, infatti, non sembra mai costretto: non sono i personaggi e l’intreccio ad adattarsi all’umore della città , quanto il contrario, come se Manhattan avesse una versatilità naturale, fosse una tavola infinita di semitoni con cui attenuare i contrasti e aggiustare le sfumature.
Può essere la città che non dorme mai, quella in cui tutto può accadere, e quella in cui i morti vagano per le strade in cerca di qualcuno che risolva i loro conti in sospeso, che consoli quelli che li hanno persi per sempre: pazienza se devono trovarlo in un egoista cronico come il dentista Pincus, talmente ferito dalla vita da vivere in una specie di autoisolamento in cui ha smesso di curarsi degli altri, per cui l’unica preoccupazione è quella di arrivare dal lavoro a casa senza incontrare nessuno.
Anzi, è l’unica sterzata necessaria, è quel paradosso grazie al quale il plot può prendere vita, l’unico movimento obbligato che Koepp cerca di attenuare con l’eccesso della colonscopia, la situazione scatenante del suo film e insieme la punizione meritevole per un uomo tanto cattivo e arido.
Come accade quasi sempre, infatti, è attraverso il loro esempio che si accorge di come la sua vita gli potrebbe sembrare inutile, nel caso in cui si dovesse ritrovare morto come i suoi nuovi amici, gli unici che non può evitare in nessun modo, perchè lo perseguitano con la loro ansia di voler essere liberati.
Koepp è abile e riesce a trovare la strada giusta giocando e superando i deja vu (Tea Leoni, esattamente come Demi Moore, chiede a Pincus/Whoopi Goldberg di rivelarle qualcosa che solo Greg Kinnear potrebbe sapere), quella corsia riservata ed esclusiva in cui certi film non pagano mai il pedaggio, che ci porta a guardare un corridoio vuoto insieme al protagonista – la soggettiva di un corridoio incerto, che è vuoto ma che si vorrebbe vedere vivo – e a sperare con lui in un ritorno.