Annus Mirabilis 1969: la guerra in Vietnam si sta gradualmente trasformando in un’ecatombe, un armageddon, l’uomo mette piede per la prima volta sulla luna, i quattro giorni di ‘Pace Amore e Musica’ di Woodstock ed il suo messaggio di pace ed armonia scoppia come una bolla di sapone e deflagra nella violenza degli scontri tra polizia e manifestanti per le strade e trasformandosi in tragedia ad Altamont, durante un concerto dei Rolling Stones, dove un giovane viene freddato davanti ad una folla che assiste attonita ed inerme alla pubblica esecuzione. In quei fatidici giorni, dal 19 al 21 Agosto, il più grande jazzista del mondo dava linfa vitale ad uno dei progetti musicali più duraturi ed influenti della storia della musica, un punto di non ritorno, una sorta di grado zero del jazz, ma anche del rock.
“Bitches Brew” è un disco inaudito, unico ed inimitabile. Un flusso di coscienza sonoro, un immane torso di elettricità che si staglia come un monolite nel cielo ed irradia con la sua imponenza il paesaggio che lo circonda. Il disco del doppio: l’uomo e la donna, il carnale e lo spirituale, il terreno ed il trascendente, come ben documenta la meravigliosa copertina, un dipinto dell’artista tedesco Marti Klarwein, già noto per aver illustrato il celeberrimo disco di Santana “Abraxas”. Un fiore che brucia (simbolo della stagione Hippy che muore) che si ricongiunge ad un cielo in tempesta, che si erge su un mare schiumoso e primordiale, alle cui sponde un uomo ed una donna abbracciati, due nativi di un’Africa potente ed immaginaria, scrutano l’orizzonte. Sul retro, due mani, in un sinuoso intreccio di dita chiare e scure, si uniscono ed emanano da una donna bifronte, nera e bianca anch’essa, con il volto imperlato di sudore ma con i tratti somatici dei nativi d’Africa, quasi a comunicare che l’uomo bianco discende dall’uomo nero. Nero è anche l’uomo incappucciato che si trova accanto a questa immagine, nera è la strega, con il volto truccato di bianco ed un’espressione tra il messianico e l’orgiastico, quasi fosse pronta a scagliare una maledizione.
Il disco è un’estensione, una propaggine del Miles – Gemelli (suo segno zodiacale), un giano bifronte che aspira al trascendente, come uno sciamano che dialoga con le forze oscure della natura e che con la sua tromba dirige i suoi sodali, doppi anch’essi: due batterie (Jack DeJohnette e Lenny White), due strumenti a percussione (Don Alias e Jumma Santos) due sax (il soprano di Wayne Shorter ed il clarinetto basso di Bennie Maupin), due, anzi, tre (!) piani elettrici (Chick Corea, Joe Zawinul, Larry Young), due bassi (quello acustico di Dave Holland e quello elettrico di Harvey Brooks), infine la chitarra di John McLaughlin che si contrappone alla tromba distorta, piena di echi e riverberi, grazie agli effetti di editing del suo produttore e musicista speculare Teo Macero, quasi una riproposizione fantasmatica della chitarra di Jimi Hendrix e del mantra spaziale del suo “Electric Ladyland”.
Il primo disco è un’orgia di suoni e visioni, un flusso ininterrotto di elettricità e tribalismo: “Pharoah’s Dance”, di Joe Zawinul, perfetto alter-ego musicale di Miles che di lì a poco fonderà i Weather Report, si snoda per venti, lunghissimi minuti, in un incalzare sincopato ed allo stesso tempo spezzettato, delle batterie, tra cui si insinuano le tastiere elettroniche e le percussioni, in una sorta di rito iniziatico, di battesimo del fuoco. La musica viene dilatata, espansa, in una sorta di brodo psichedelico: le tastiere si ringhiano contro, i vamps (le figure ripetitive ritmiche prese a prestito da James Brown e da Sly Stone che Miles amava) del basso insistono perentori, la chitrarra di McLaughlin disegna acquerelli elettrici, mentre la tromba dello sciamano si pone al di sopra delle maglie sonore colorando tre note stridenti prima di disperdere il caos.
Prima ancora che ci si possa riprendere dallo stordimento, la title track, firmata dallo stesso Davis, ci regala altri ventisei minuti di fuoco, magma e pozioni ribollenti. Una sorta di attesa dell’Oracolo, scandita dalle note del basso e spezzata dalle tastiere e dal rombo delle batterie. La tromba di Miles fa da guida con le sue note pregne di eco e riverbero, preludendo alla frase insisitita del basso che sembra emergere dal nulla e viene poi coadiuvato dal borbottio del clarino basso e dallo schioccare di dita dello sciamano Miles. Poi un suono ricco di insieme viene lanciato, quasi all’unisono, dagli strumenti e la tromba di Davis scimmiotta il tema di “Spinning Wheel” dei Blood Sweat and Tears, quasi una beffa, uno schiaffo in pieno volto alla borghesia bianca votata al jazz che vuole suonare come i neri senza riconoscerne il merito e l’influenza.
Dopo una lunga serie di intrecci e di intarsi di chitarra, basso e tastiere culminanti nell’assolo al soprano di Shorter, il nastro si spezza e si ritorna alla sezione iniziale di borbottìo di clarino e la frase insistente di basso, incollata ad arte da Macero. Poi l’ultima deflagrazione di tastiere basso e batterie sfuma sotto la tromba di Miles.
Il secondo disco suona come una riproposizione più misurata e disciplinata della musica, ma si fa per dire. In “Spanish Key”, Jack DeJohnette e Lenny White picchiano un tempo marcatamente rock su una ritmica funky della chitarra di McLaughlin e le tastiere impazzite di Corea e Larry Young innestano un dialogo con la tromba di Miles Davis in una sorta di jam session collettiva sullo stile bandistico delle fanfare di New Orleans. “John McLaughlin”, suonato solo dalla sezione ritmica, senza Miles e Shorter, è un atto di ringraziamento nei confronti dell’altro alter-ego di Miles, McLaughlin, segue gli stessi stilemi Rythm and Blues della precedente composizione in poco più di quattro minuti, una sorte di ponte al Rush finale di “Miles Runs the Voodoo Down”, quasi festosa, colorata e bandistica, guidata dalla batteria di Don Alias, in una sorta di estasi carnevalesca.
La Shorteriana “Sanctuary”, languida ballata, chiude il disco e propone una pacificazione, una catarsi. Una benedizione successiva alla celebrazione del tempo e dello spazio e del rituale pagano della notte e del giorno.
Dopo quarant’anni questo disco suona ancora fresco e rivoluzionario, come fosse uscito ieri. Una cornucopia di suoni e visioni, un capolavoro senza tempo che ha diviso critici ed amanti della musica della più diversa estrazione, ma che ha finalmente abbattuto le barriere tra jazz e non jazz, inaugurando un modo nuovo di produrre la musica e di fruirla, con i rivoluzionari utilizzi della stereofonia e degli elementi di editing e post ““ produzione del mago teo Macero, ma soprattutto con le geniali trovate di un musicista unico ed inimitabile come Miles Davis, che filtra tutte le esperienze della musica nera e bianca e le sintetizza in una maniera del tutto inedita ed assolutamente affascinante.
“Bitches Brew” venderà quasi 500.000 copie, surclassato solo da un altro disco ““ capolavoro di Miles Davis, “Kind of Blue”, cambiando per sempre la storia della musica.
Lo stregone vive: Miles Runs the Voodoo Down.