Questo “Backspacer” sembra l’album di quei Pearl Jam che non vogliono invecchiare, come anche nel precedente lavoro avevano fatto notare. Si pesta ancora tanto, fermandosi ogni tanto per quegli inserti melodici che in certe band significano ‘vendersi’ ma che sono invece molto spesso sintomo della maturità che quasi tutti, prima o poi, raggiungono (e infatti il pezzo più lento “Just Breathe”, non solo è un ottimo brano da viaggio in autostrada, ma presenta anche degli inserti d’archi che sono più o meno una novità per Vedder e soci).
L’album si apre con un pezzo veloce, simile a molti altri successi del passato tra cui il singolo “Do The Evolution”. Si tratta di “Gonna See My Friend”, strofa e ritornello alternati in una composizione semplice quanto ben funzionante. Azzeccata. Si capisce subito che i riff di questo disco funzionano, anche se sono comunque la rielaborazione più o meno originale di quanto già è stato prodotto nella loro più che decennale carriera. Lo scopriamo in “The Fixer”, brano che scivola via veloce per la struttura prevalentemente ‘da chart’. E’ questo il tiro del disco. E uno dei singoli estratti “Supersonic” ne è la conferma, forse l’episodio meglio riuscito di questo Backspacer, con riff taglienti al punto giusto per scatenare anche un po’ di pogo ai concerti. In “Amongst The Waves” si passa a quel post-grunge di band come Nickelback, Creed e primi Alter Bridge, per quanto riguarda la musica, ma il brano è comunque riportato allo stile PJ dalla voce di Vedder e dall’assolone centrale, che quasi strizza l’occhio a Slash. Vale lo stesso per la successiva “Unthought Known”.
Sonorità più ‘british’ rispetto al grungettone a cui hanno abituati aprono “Got Some”, che diventa poi comunque il classico pezzo alla Pearl Jam, e anche in “Johnny Guitar”, in verità uno dei pezzi migliori del disco, per l’impatto che la sua scontatezza ha anche al primo ascolto. Nell’ottica di un disco che “deve vendere” funziona senz’altro. Un po’ di melodia anche per un titolo rubato ai Coldplay, “Speed of Sound”, in realtà una canzone completamente diversa, anche se i toni un po’ “malinconici” ricordano un po’ alcuni pezzi del gruppo inglese.
La band è ancora in forma, sforna riff che si memorizzano facilmente e lancia ancora qualche occhiata al passato da band grunge uscita dal fortunato panorama di Seattle, seppur l’attenzione a delle soluzioni più ‘universali’ nel sound e nella composizione dei brani siano evidenti. La voce di Vedder è sempre all’altezza e, insieme al chitarrista solista Michael David McCready, rimane il migliore in formazione (anche come originalità ). La produzione, nei suoni, è in linea con tutti i loro lavori, soprattutto gli ultimi due o tre album, e non presente particolari novità .
Per concludere, “Backspacer” è un album che soffre forse della mancanza di quella freschezza che contraddistingueva in particolare alcuni CD precedentemente sfornati dalla band (non solo lo storico “Ten”), ma che dimostra come ci sia chi, superata la quarantina, continua ad avere comunque qualcosa da dare al panorama rock. Mainstream si intende. Perchè il grunge, si sa, ormai è morto. E non per colpa di Kurt Cobain.