Opera di magnifico turgore politico, sorta di blues psichedelico per sopravvissuti ad un’Apocalisse evidentemente già avvenuta (l’ “ultima chiamata New Orleans””…), “Il Cattivo Tenente” versione Herzog comincia con un tuffo suicida in acqua, e finisce in un acquario: secondo te i pesci sognano?, si chiede Nicolas Cage (facile correre ad “Al Di La Della Vita” nei toni della sua performance, stupefatta oltre che stupefacente). Nel soddisfatto sorriso finale, il protagonista sembra aver trovato la sua risposta: che cosa scorge Terry guardando in macchina, che lo fa scoppiare a ridere? Il cattivo tenente ride perchè ci ha visti, pesci chiusi in una boccia di vetro che guardiamo i personaggi del film ‘mentre dormono’, come nei versi della poesia che il piccolo assassinato Babacar lascia come testamento (“My Friend”) ““ o è il contrario, e i pesci si muovono nel film mentre ci guardano sognare?
In un caso o nell’altro, la questione principale dell’opera riguarda l’essere anfibi ““ poter sopravvivere in entrambe le condizioni: il rifugio dell’alligatore, si chiama il locale dove Terrence va a prelevare i giovani riccastri da punire per la loro sfacciata lussuria; ed egli stesso, con la sua camminata curva dai rimandi espressionisti, dovuta al lancinante dolore alla schiena, non fa che ricordarci di sequenza in sequenza come si troverebbe più a suo agio con una colonna vertebrale meno rigida, più elastica ““ da rettile, sostanzialmente: come la visione adottata da Herzog, responsabile in prima persona delle liquide, morbide riprese a spalla che si insinuano nelle verticalità delle inquadrature più “‘formali’. Sono, appunto, le due condizioni del film: rettile e rettilinea.
Ancora una volta dopo “Fata Morgana” o il dimenticato bellissimo “Incident at Loch Ness” (giusto per citare due tra gli episodi maggiormente stranianti per i continui inserti grottesco-surreali), l’occhio di Herzog riconosce animali immaginari, esseri primordiali di una arcaica ““ o futura? ““ tappa dell’evoluzione, “Encounters At The End Of The World” beffardamente infiltrati in uno script per ammissione stessa del regista pesantemente rimaneggiato, in cui giocare con i nomi dei personaggi (dal “Big Fate” di Xzibit al Giudice Goodhusband alla signora Fahringer) e con i volti che rimandano al proprio cinema ““ l’amico Brad Dourif, e il Michael Shannon poi protagonista dell’altro Herzog visto a Venezia, “My Son My Son, What Have Ye Done”, davvero meno libero e bello di questo, trattenuto come un pallone incastrato tra i rami di un albero, che qualcuno prima o poi raccoglierà .
In questo cinema di anime morte che continuano a danzare, il tenente Terrence sbanda, arranca e barcolla ma alla fine tutto ‘ha funzionato ugualmente’: vaga con gli occhi spiritati attraverso l’ennesima landa extraterrestre ed inospitale della fantasia di Herzog (quanto è formidabile in quest’ottica la brevissima sezione dedicata alla ricerca del piccolo testimone fuggito, con Cage che attraversa spaesato gli androni di uno squallido Casino, e poi illumina i volti spettrali delle donne in mostra lungo la strada delle prostitute”…), guidando l’automobile scassata che ad un certo punto è abitata da un cane, uno spaurito ragazzino di colore, e la superba e, forse, amata figura di Eva Mendes, particolarmente brava: come quattro diverse versioni dello stesso cuore errante ““ l’animale, l’animo gentile, il folle psicopatico, e il bambino che sta ancora cercando il tesoro dei pirati nel giardino di casa. Ma il cucchiaio nascosto non è davvero d’argento (anche se è un regalo meraviglioso ugualmente); come non c’è nessuna iguana sul tavolino ““ che cosa credete di aver visto?